Prof. Traniello, per molti anni lei ha indagato le biblioteche anche da una prospettiva sociologica: cosa è cambiato, a suo parere, nel panorama bibliotecario italiano, e cosa invece è rimasto sostanzialmente uguale, da quando, vent’anni fa, si trovava a scrivere La biblioteca come istituzione e come sistema comunicativo?
Mi pare siano cambiati soprattutto atteggiamenti e competenze all’interno della professione bibliotecaria, nel senso che oggi il bibliotecario si percepisce principalmente come esperto e tecnico dell’informazione e ha interesse soprattutto per questo genere di problemi, come risulta dall’affluenza ai diversi tipi di convegni e di corsi. Assai minore mi sembra l’interesse per i temi propriamente politico-istituzionali, anche perché su questi si è fatta forse troppa retorica (per esempio nella legislazione regionale).
A livello istituzionale, negli ultimi quindici anni si è assistito a una crescita notevole di parecchie biblioteche locali, mentre a livello di amministrazione regionale e soprattutto statale non mi sembra sia cambiato un gran che.
Nelle pagine del suo libro Biblioteche e società (Bologna: il Mulino, 2005), dedicate alle origini della public library in paesi come la Gran Bretagna, ho letto tra l’altro un accenno al potenziale positivo della biblioteca in termini di pacificazione e sicurezza sociale, che fu uno degli argomenti più usati per sostenere l’approvazione del primo Public library act.
Le sembra appropriato che una questione del genere, con le dovute differenze, venga posta sul tappeto anche oggi valutando, ad esempio, il possibile impatto dei servizi bibliotecari sullo sviluppo sociale delle nostre periferie metropolitane e urbane più degradate, oppure pensando al valore della biblioteca come agente di inclusione e scambio culturale tra comunità di diversa provenienza etnolinguistica?
Non è facile risolvere il quesito se la pacificazione sociale, o forse sarebbe meglio dire l’integrazione, sia comunque e sempre auspicabile. Dalle rivoluzioni è pure nato qualcosa nella storia, non si può non riconoscerlo.
È vero che le public libraries, come pure le biblioteche popolari, sono state concepite soprattutto come strumenti di integrazione sociale; poi hanno però sviluppato funzioni diverse, come ad esempio quelle relative all’informazione e hanno addirittura contribuito allo sviluppo delle scienze dell’informazione (un processo che è stato talvolta descritto, forse non a torto, nei termini di una "rivoluzione").
Non so se le biblioteche possano oggi servire contro le disgregazioni sociali per esempio delle periferie, che poi comportano aggregazioni di tutt’altro tipo, fondamentalmente contrarie ai "valori" di cui le biblioteche dicono di essere espressione.
Mi pare che il problema bibliotecario si ponga essenzialmente a livello individuale; non esiste una "lettura pubblica", se non come modo di dire ellittico e come clausola retorica nel complesso poco felice. Ciò non significa che la biblioteca non sia anche luogo di aggregazione, soprattutto tra appartenenti a gruppi in qualche misura omogenei. In questo senso a me sono sempre parse importanti anche le cosiddette "iniziative culturali" delle biblioteche pubbliche.
È vero che chi va in biblioteca (e può anche ritrovarsi in un gruppo) può desiderare di studiare la propria cultura di origine, oppure le culture di gruppi che sono presenti accanto a noi. Perché ciò sia possibile occorre un’offerta percepibile, vale a dire abbastanza ampia e ben organizzata. È poi essenziale, a questo scopo, che lavorino in biblioteca anche persone che parlano lingue diverse e provengono da culture diverse dalla nostra (se così si può dire, perché la cultura "in senso antropologico" non si sa bene che cosa sia e comunque non è un luogo di provenienza).
In ogni caso, tornando alle funzioni sociali della biblioteca, quello che ho cercato di sostenere è che le funzioni non possono definirsi a priori, partendo dai caratteri delle istituzioni. Vanno piuttosto esaminate nel loro formarsi e nelle strutture che sviluppano in relazione al divenire dell’azione sociale.
Il rapporto biblioteche/società è sempre più mediato dalle tecnologie dell’informazione. Può provare a sintetizzare il significato di questa trasformazione? Secondo lei sono prevalenti i vantaggi o gli svantaggi, ai fini dello sviluppo delle biblioteche e della professione bibliotecaria, nell’ibridazione che si sta progressivamente registrando tra biblioteconomia e scienze dell’informazione?
Secondo me si assiste in campo bibliotecario a una divaricazione sempre più pronunciata. Da una parte vi sono le risorse elettroniche che in certe situazioni, per esempio universitarie, possono essere strumenti potentemente innovativi e che comunque secondo me costituiscono il campo di interesse scientifico e professionale prevalente dei bibliotecari.
Dall’altra vi sono i problemi di gestione della biblioteca come ambito di fruizione del libro da parte di una determinata utenza. In questo secondo settore, mi pare sia cambiato ben poco. Da parecchi anni vedo come funzionano soprattutto le biblioteche di facoltà, o di area se si preferisce, e non trovo differenze da quando ero studente io negli anni Cinquanta. Vi si va per trovare un posto per leggere e studiare senza dovere riattraversare una città. Se si desidera un libro in prestito, si compila una schedina e ci si rivolge a un addetto. Che si trovi magari la collocazione su un catalogo elettronico, non mi pare cambi gran che. I periodici cartacei non vengono consultati se non in maniera del tutto occasionale, lavori seminariali in biblioteca non se ne fanno.
Quanto alle risorse elettroniche, le biblioteche possono servire molto perché sono le sedi nelle quali si possono fare abbonamenti a riviste online tramite consorzi, usufruire di basi dati in linea, creare siti web di carattere bibliografico o documentario ecc. Per far questo non vi è bisogno di uno spazio attrezzato per la lettura, si ripropone un po’ il rapporto che c’era nel Medioevo tra scriptorium e biblioteca. Le biblioteche delle facoltà scientifiche sono interessate solo a questo aspetto, che è anche quello che assorbe le maggiori risorse finanziarie, e non vogliono sentire parlare di altri problemi. Per questa strada, però, mi pare inevitabile che si arrivi a una separazione più o meno consensuale tra biblioteche e centri di documentazione per la fruizione in rete (nel proprio studio, a casa propria ecc.).
Quindi, a dire la verità, considerando le cose dall’angolatura universitaria, io non vedo ibridazione ma progressiva separazione.
Per le biblioteche pubbliche il discorso è naturalmente diverso. Personalmente, però, uso solo le grandi biblioteche statali di Roma (Nazionale, Biblioteca della Camera, ora un po’ anche quella del Senato). Le raccolte sono abbastanza ricche, ma alla Nazionale l’aggiornamento è lento per via della legge sul deposito e, nonostante il personale sia, per quanto riguarda i funzionari, di buon livello, talvolta ottimo, il servizio al pubblico è insoddisfacente e le procedure elettroniche non mi pare si facciano avvertire in termini di miglioramento. Non si può dire però: rinunciamo all’informatizzazione, a SBN, e assumiamo un po’ di personale, perché le due cose non sono per nulla contrapponibili. Io sono ben contento che esistano SBN, Edit 16, Manus ecc. e che si possa andare anche verso la biblioteca digitale. Ma i servizi bibliotecari restano quello che sono.
Le biblioteche del sistema locale non le frequento, ma so che ci si fanno molte iniziative utili e interessanti, dove però l’informatica mi pare c’entri pochino (ma forse sono io che non mi informo a sufficienza).
Da parte mia, uso anche la biblioteca dell'AIB. Questa, per quanto mi riguarda, mi pare funzioni bene, anche se è troppo piccola e non è in grado, per motivi di ordine economico-istituzionale, di effettuare una vera politica degli acquisti. Biblioteche specializzate di questo tipo servono molto per la ricerca e andrebbero fortemente incrementate, penso anche come sezioni di biblioteche pubbliche e universitarie.
Ritornano più volte, nel suo volume, i nomi di Ludwig von Bertalanffy, Jesse Shera, Talcott Parsons, Niklas Luhmann, e altri ancora. In che modo la politica bibliotecaria e l’organizzazione centrale e locale delle biblioteche possono concretamente giovarsi delle teorie dei sistemi e di quelle strutturaliste e funzionaliste?
Mi pare si debba distinguere. La teoria generale dei sistemi di von Bertalanffy costituisce una citazione di prammatica, che anch’io ho fatto, ma l’opera non mi sembra di profondità e originalità esemplari; credo che, nonostante la pretesa di fondazione teoretica, ciò che vi si dice fosse ampiamente noto da almeno tre secoli.
Shera applica egregiamente al caso della biblioteca la visione parsoniana dell’istituzione come funzione integratrice e di controllo dell’azione entro il sistema sociale. Questo è certamente all’origine della biblioteca pubblica americana e funziona quando le cose vengono prese sul serio.
Un’agenzia che debba svolgere un ruolo di questo genere, nella società industriale contemporanea, deve disporre di enormi risorse, se no fa ridere.
Quanto a Luhmann, mi pare che la sua impostazione possa essere utilizzata soprattutto per trarne alcuni suggerimenti interpretativi. Per esempio quello relativo alla pluralità dei sistemi sociali, l’idea che elementi identici (per esempio i libri) possano essere imputati a sistemi diversi e anche quella che i "sistemi complessi" debbano "essere all’altezza" della loro complessità, vale a dire, mi pare di capire, debbano strutturarsi, sviluppare strutture, in maniera adeguata, mediante scelte selettive (funzioni) che riguardano comunque delle azioni.
Ogni biblioteca deve tendere a essere un sistema (sociale) riducendo la complessità dell’ambiente dove i libri possono essere elementi di sistemi diversi. Ciò avviene mediante le funzioni, intese come scelte selettive, che il sistema biblioteca opera nei confronti delle azioni relative ai libri venendo così a sviluppare determinate strutture. È importante sottolineare che per Luhmann la struttura non è un particolare tipo di stabilità, ma è il frutto di scelte selettive in grado di collegare tra loro azioni che si ripropongono nel tempo sulla base di determinate aspettative.
Naturalmente, l’applicazione alla biblioteca è solo una interpretazione mia, non spetta a me dire quanto corretta, dell’impostazione di Luhmann che resta caratterizzata in senso totalmente teoretico.
Più in generale, a me pare che l’uso di categorie sociologiche in biblioteconomia vada fatto in prospettiva critica e vadano quindi privilegiate quelle particolarmente dotate in questo senso.
Una sociologia giustificativa e apologetica come quella che soggiace a gran parte delle riflessioni sulla biblioteca pubblica, per esempio a proposito dei cosiddetti "sistemi", non giova alla crescita funzionale delle istituzioni.
Un altro autore che ho letto e che mi ha vivamente interessato è lo studioso svedese di antropologia sociale Ulf Hannerz. Il suo lavoro su La complessità culturale pone in primo piano un problema di fondo, anche per le biblioteche: quello degli aspetti distributivi della cultura e delle istituzioni culturali.
È lecito nutrire ancora delle speranze per un benefico riassetto complessivo di quello che lei definisce, nell’ultimo capitolo del libro, "un problematico modello italiano"? Se sì, a quali condizioni? E chi dovrebbe in primo luogo intervenire?
A me pare che il modello italiano di biblioteca, per quanto ha di valido, sia fortemente legato ai caratteri della nostra storia: per esempio il "policentrismo culturale". Vi sono sintomi di ripresa di iniziative locali interessanti in campo bibliotecario. Ma vi è anche un conservatorismo spesso scoraggiante e un’insufficienza evidente di impegno prima di tutto finanziario da parte dell’amministrazione centrale. Direi che il punto essenziale è come si svilupperà la storia del nostro Paese (in Europa, evidentemente) dal punto di vista specificamente culturale.
A chi ha pensato di più nello scrivere e pubblicare Biblioteche e società? In altre parole: chi anzitutto vorrebbe che lo leggesse e ne facesse tesoro?
Ho pensato soprattutto ai miei studenti e ho avuto una graditissima sorpresa: questo testo, che a me sembrava un po’ difficile, ha suscitato interesse ed è stato compreso più di altri libri, anche miei, che mi sembravano più facili.