I librai Feltrinelli stanno vivendo, ormai da mesi, un periodo di agitazioni, che si è concretizzato in azioni di protesta e scioperi.
Il malcontento nasce dalla progressiva trasformazione delle librerie Feltrinelli, dovuta alla fusione con Ricordi e all'acquisizione delle librerie Rizzoli, in megastore. Tale innovazione, infatti, oltre a coinvolgere profondamente un'azienda tra le maggiori al mondo nel campo della diffusione di prodotti culturali, incide profondamente sull'organizzazione del lavoro, sulle condizioni e sui diritti dei lavoratori.
Punto di incontro virtuale, e mezzo per dare visibilità alla protesta, è un un blog chiamato Effelunga, con un chiaro riferimento ai cambiamenti che l'azienda sta vivendo: merci e valori di scambio sono diventati prioritari rispetto ai prodotti e alla loro importanza come valori d'uso.
A partire da una mail che raccontava dell'inizio di queste proteste, diffusa anche nella lista di discussione AIB-CUR, mi piacerebbe esprimere e condividere con i colleghi alcuni spunti di riflessione sulla vicinanza di due figure professionali, il libraio e il bibliotecario, e su quanto tale vicinanza sia accresciuta in ragione di alcuni meccanismi attualmente in atto nel mercato del lavoro.
"Molti entrano in libreria non per comprare libri, ma soprattutto per cercare comunicazione, amicizia, filìa, così quando uno compra libri, compra emozioni, parole. Molti entrano in libreria perché non stanno bene (anche se non lo ammetteranno mai), soffrono e cercano medicine.
I libri sono terapie.
Ovviamente quei libri che si fanno capire, quelli che riescono a diffondere delle idee, delle emozioni. Il libraio dunque deve essere competente perché deve conoscere i testi giusti, ma anche intuitivo perché deve saper riconoscere il tipo di disagio che attanaglia chi gli si rivolge.
La terapia dunque è la comunicazione, se funziona."
Scrive sul blog uno dei lavoratori:
"Quello che sta succedendo alle librerie Feltrinelli non è il capriccio di qualche nuovo dirigente fantasioso ma è un processo di natura economica, un processo di concentrazione del capitale, di dequalificazione del lavoro dipendente, di agganciamento dei salari alla produttività, tutte cose che in realtà non riguardano solo noi ma riguardano e hanno riguardato tutti i lavoratori del commercio e della grande distribuzione".
e nel messaggio in AIB-CUR una frase fa da contraltare:
"Lavorare qui, un tempo voleva dire avere una grande professionalità.
E tutti, nel loro piccolo, si sentivano parte di un'azienda che fa cultura".
Nel mondo delle biblioteche italiane le cose vanno diversamente, ma solo in parte: non esiste grossa concentrazione di capitale, poiché gli attori sono sostanzialmente pubblici, o comunque senza fini di lucro, mentre gli operatori privati (cooperative, società di servizi) difficilmente raggiungono la dimensione di gruppi nazionali; la tendenza a svalutare il lavoro del dipendente e a precarizzare l'impiego, tuttavia, è sempre crescente.
Non si può trattare, in questo caso, di un'operazione tesa a massimizzare il profitto, che per definizione dovrebbe non esserci, ma forse solo a contenere le perdite, se vogliamo definire così l'investimento in un settore, quello culturale nel suo insieme, che non comporta un immediato ritorno di capitale.
La crescente precarizzazione sta generando una spaccatura completa all'interno delle strutture: da una parte la biblioteca e i bibliotecari che ci lavorano a tempo indeterminato (e spesso da tempo indeterminato), dall'altra i precari, sempre più emarginati; a loro si chiede di catalogare (in fretta), di dare informazioni, di registrare prestiti, si chiede insomma, fondamentalmente e al di là delle specifiche attività, di stare al loro posto e di contribuire, come in catena di montaggio, all'efficienza delle attività, senza neppure che si possano rendere conto di come funzioni il servizio al quale contribuiscono, spesso in maniera determinante.
Così come i megastore Feltrinelli non hanno più bisogno di librai, la biblioteca di oggi pare non abbia bisogno di bibliotecari: c'è bisogno di manodopera giovane, intercambiabile e flessibile per orario e luogo di lavoro, mansioni e soprattutto salario (la parità salariale dipendenti/collaboratori rimane una chimera...).
Si tratta un fenomeno pericoloso, però: ce ne siamo accorti tutti quando, entrando ancora una volta in una libreria Feltrinelli, abbiamo provato a chiedere di un libro che non era tra le novità del mese e ci siamo dovuti misurare con lo sguardo vacuo del commesso.
Lo stesso rischio si sta correndo con le biblioteche: a furia di esternalizzare, a partire dalle mansioni meno qualificate e poi a salire, nelle biblioteche non si troveranno più bibliotecari capaci di rispondere a richieste e bisogni informativi più sofisticati, ma persone capaci solo di dare risposte preconfezionate a bisogni standardizzati.
Un grosso elemento di incoerenza, però, è rappresentato dall'annuncio, pochi mesi fa alla Fiera del libro di Torino, della nascita della Scuola dei librai italiani, creata dalla collaborazione dell'ALI (Associazione librai italiani-Confcommercio) con la Fondazione del Centro studi della città di Orvieto e l'Università Ca' Foscari di Venezia.
La scuola formerà giovani aspiranti librai che, già in possesso di un diploma di laurea di primo livello, svilupperanno le competenze per svolgere questo lavoro. Il fenomeno replica, con ritardo di anni, la scuola che l'associazione tedesca omologa dell'ALI, la Böersenverein, ha voluto e che esiste ormai dalla fine degli anni Quaranta.
E che cosa dire allora del nascere, negli ultimi anni, di tanti corsi di laurea legati alla figura del bibliotecario e dell'azione dell’AIB, che si spera sempre più incisiva, per il riconoscimento della professione? Quale professione? Quella che poi, nei fatti, il mondo del lavoro va facendo scomparire? Forse è su questo che come bibliotecari, soci AIB, persone interessate alla professione, dobbiamo concentrarci.
marchitelli@aib.it