A Lund, sede della prestigiosa università scandinava fondata nel 1666, si è tenuta dal 21 al 22 aprile scorso, la "First European Conference on Scientific Publishing in Biomedicine and Medicine".
Erano presenti i maggiori esponenti della comunicazione scientifica in campo biomedico, riuniti per discutere le tendenze della moderna editoria investita da un nuovo cambiamento epocale: l’open access (OA), quel movimento volto a garantire l’accesso libero e incondizionato alle pubblicazioni scientifiche, reso possibile unicamente dal fenomeno Internet.
In generale, nonostante le molteplici iniziative avviate negli Stati Uniti, in Europa e anche in Australia a favore del libero accesso ai risultati della ricerca, soprattutto se finanziata da fondi pubblici, non si è ancora raggiunto un livello soddisfacente di diffusione di tali risultati.
La conferenza, articolata in una prima giornata di relazioni su invito e in una seconda di informali seminari a tema, è stata animata dagli interventi di tutti gli attori della comunicazione scientifica: editori, utenti e specialisti dell’informazione.
Primo tra i grandi, Eugene Garfield, l’ideatore dell’impact factor (IF), password di accesso al mondo dei grant e della carriera accademica. Inconfondibile emblema di un’epoca contrassegnata dall’analisi citazionale dell’Institute of Scientific Information di Philadelphia (oggi Thomson Scientific), Gene, così come lo chiamano amici e colleghi, ha risposto prontamente a ogni sollecitazione/provocazione circa i discutibili attributi della sua "creatura", protagonista dell’acceso dibattito mondiale sulla valutazione della letteratura scientifica.
Non poteva che essere lui, dopo i rituali di benvenuto, ad aprire le danze congressuali all’Hotel Scandic con un excursus sugli impact factor totalizzati dai premi Nobel.
A seguire, l’originale intervento di Jean-Claude Guédon, storico della scienza, da anni impegnato nell’analisi dei grandi temi della comunicazione accademica.
Guédon ha fortemente sostenuto il concetto di "relocation of scientific knowledge": la necessità di creare sinergie tra i vari utilizzatori della conoscenza scientifica, in modo da offrire alla filosofia OA una connotazione sociale che coinvolga medici, pazienti, operatori e anche politici, solo apparentemente distanti dai centri di elaborazione della ricerca.
In tal senso ha energicamente ribadito l’urgenza di procedere a una democratizzazione della scienza; anche i pazienti, ad esempio, possono essere lettori intelligenti, capaci a loro modo di apprezzare e interpretare i risultati delle ricerche, e ancora di più lo sono i politici, responsabili delle scelte strategiche che investono il mondo accademico.
I rappresentanti di agenzie che finanziano la ricerca, in particolare i Consigli di ricerca (RC) in Gran Bretagna, la Wellcome Trust e il Joint Information Systems Committee (JISC), hanno sostenuto che, nelle richieste di finanziamento, i costi di pubblicazione sono da considerare al pari degli altri costi della ricerca ("Publishing is a cost of research") e che ogni ente erogatore di fondi deve esigere che siano resi disponibili online e gratuitamente i risultati delle ricerche finanziate.
Ciononostante, Fredrick Friend del JISC ha riferito che, malgrado l’ingente finanziamento del governo britannico a favore della ricerca (20 miliardi di sterline!), la diffusione dei risultati continua ad avvenire primariamente attraverso i prestigiosi periodici tradizionali, quelli dotati di elevato impact factor e facenti parte dei "big deal" editoriali.
Tra le iniziative a sostegno dell’OA, Friend ha segnalato due importanti documenti: Research Councils UK’ updated position statement on access to research outputs e Access to research publications: universities UK position statement (documenti aggiornati a giugno 2006).
Friend ha ricordato inoltre il Programma FAIR (Focus on Access to Institutional Resources) a supporto della ricerca e il Digital repositories programme 2006-2008; ha infine segnalato, fra gli altri, la Directory of Open Access Repositories, che contiene attualmente anche 15 archivi italiani.
In un convegno sull’OA non poteva mancare il contributo della Public Library of Science (PLoS): Marc Patterson, pur promuovendo gli scopi di tale biblioteca virtuale ad accesso libero, ha ribadito che la formula dei periodici OA (oggi oltre 200) non deve essere considerata una panacea in grado di ridurre le spese di pubblicazione. Infatti, l’OA business model è ancora debole sul mercato dell’editoria scientifica dove, di fatto, perdura il prestigio accademico conquistato dalle riviste commerciali.
Se da un lato gli editori tradizionali garantiscono la qualità del prodotto, dal punto di vista finanziario restano fedeli alla politica delle quote di abbonamento e delle spese di pubblicazione a carico dell’autore o dell’istituzione (page charges).
A difendere la posizione dell’editoria STM più consolidata ma ormai gradatamente incline alle logiche dell’OA è intervenuto Jan Velterop, della Springer Verlag, sostenendo la necessità di prevedere due processi distinti: la "communication", intesa come canale informale di disseminazione dei contenuti scientifici, e il "publishing", da intendere come certificazione di ufficialità dei contenuti.
All’autore è delegata la scelta tra le opzioni offerte dall’editore: accesso tramite abbonamento e conseguente trasferimento del copyright oppure approccio OA tramite "author-pay model".
Brillante l’intervento di Alma Swan, della società inglese di consulenza Key Perspectives, la quale ha riportato informazioni e dati emersi da indagini commissionate recentemente da JISC e OSI (in particolare il report del JISC/OSI Journal authors survey ): unicamente il 15% della ricerca è open access, solo il 24% degli autori hanno pubblicato su una rivista OA e soltanto il 22% ha effettuato il deposito in un open repository.
Nel mondo ci sono attualmente circa 600 OA repositories che contengono in media 297 articoli ciascuno; il 93% delle riviste consentono agli autori di effettuare il self-archiving (come da statistiche disponibili su
Swan ha illustrato inoltre i dati sulla rispondenza degli autori alla pratica dell’autodeposito quando questo sia stato reso obbligatorio dalla policy istituzionale: il 5% rifiuta di attenersi, il 14% deposita con riluttanza, ma l’81% effettua l’archiviazione senza alcun problema. Ha infine annunciato che entro 2 anni sarà rilasciato un software in grado di misurare gli accessi agli articoli di tutti i repositories OAI compliant.
Stevan Harnad, un altro grande tra i fautori dell’open access, ha riferito che l’autoarchiviazione aumenta la percentuale di citazioni ricevute dall’articolo depositato, per un valore che oscilla dal 50 al 250%. Ha ribadito che attualmente soltanto il 15% dei ricercatori effettua il self-archiving e che di conseguenza è assolutamente prioritario definire una policy istituzionale che favorisca la graduale adesione ai principi OA, come ad esempio è stato fatto all’Università di Southampton e alla Queensland University of Technology, in Australia.
Quanto all’annosa questione della valutazione della ricerca, Harnad ha sottolineato che l’impact factor non è una misura oggettiva dell’utilizzo di un lavoro scientifico, mentre lo è il tasso di download degli articoli depositati negli archivi istituzionali. Il numero dei download effettuati per un articolo è strettamente correlato al suo futuro IF (più è elevato il download, maggiore sarà l’IF). Ha precisato, inoltre, che nei depositi istituzionali è possibile archiviare la versione finale di un lavoro, revisionata e accettata per la pubblicazione, (post-print) o la versione non revisionata (unrefereed draft), ma che non è possibile depositare il PDF/XML fornito all’autore dall’editore (l’impaginato) – a meno che il lavoro sia non coperto da copyright; a tale riguardo ha segnalato il sito di Sherpa contenente le singole politiche editoriali in tema di copyright.
Infine Robert Terry della Wellcome Trust, una delle più importanti istituzioni che finanziano la ricerca nel Regno Unito, ha confermato la necessità di rendere obbligatoria la pubblicazione in OA dei risultati delle ricerche finanziate, quale unica formula vincente per spingere l’editoria scientifica tradizionale a favore dell’accesso libero.
La prima giornata di congresso si è piacevolmente conclusa con la cena di gala presso lo stesso Hotel Scandic. Gustando la ricca offerta di piatti svedesi, abbiamo anche stretto nuove collaborazioni, in particolare con Jean-Claude Guédon, che abbiamo invitato a partecipare a un convegno sulle tematiche dell’open access in programma all’Istituto superiore di sanità il 30 novembre – 1 dicembre 2006.
La seconda giornata ha visto un confronto più ravvicinato tra i relatori e i partecipanti al convegno, nell’atmosfera informale dei seminari su temi specifici.
Noi abbiamo preso parte al workshop "The new world of webmetric performance indicators" tenuto da Stevan Harnad e imperniato sulle applicazioni dell’analisi testuale per l’estrazione di informazioni dettagliate dai documenti. La tecnologia del web semantico, mirata all’identificazione dei legami di tipo semantico e sintattico tra le parole attraverso la logica dei predicati, fornisce una classificazione evoluta dei testi condensati nella letteratura scientifica.
L’impiego di tali sistemi all’analisi delle citazioni degli articoli accessibili in modalità OA consente il riconoscimento dei contenuti elaborati dalle diverse comunità di ricerca, arrivando a individuarne l’impatto e a valutare il peso delle varie istituzioni nell’elaborazione della conoscenza scientifica. Harnad ha dimostrato che l’era dell’open access ha inaugurato ormai strumenti innovativi di misurazione dei risultati della ricerca, basati sulla fusione tra tecnologia web e programmi intelligenti di identificazione e interpretazione testuale.
In conclusione, quella del convegno di Lund è stata un’esperienza a tutto campo che ha gettato luce intensa sui cambiamenti in atto nel mondo della comunicazione e in particolare dell’editoria scientifica.
Ci è sembrato assolutamente indovinato il leit motif del convegno: «Where you publish makes a difference. (...) Your choice may have a dramatic effect on how accessible, or inaccessible, your research is».
paola.decastro@iss.it
elisabetta.poltronieri@iss.it