Il 10 e 11 febbraio 2006 si è tenuto a Ravenna il convegno "Il linguaggio delle biblioteche digitali 2: un Manifesto per le biblioteche digitali", organizzato dal Gruppo di studio AIB sulle biblioteche digitali , dalla Provincia di Ravenna e dall'Università di Bologna sede di Ravenna.
In questa serie di brevi relazioni-interviste – divisa in due parti – presenteremo anzitutto la discussione avvenuta nelle due giornate del convegno, che ha fornito una prima necessaria contestualizzazione a caldo delle tesi proposte e sostenute nel Manifesto.
Alla sintesi dell'intervento di ogni relatore faremo poi seguire una domanda, proposta allo scopo di rilanciare, nelle risposte a freddo di chi ha continuato con noi la discussione, alcuni temi critici per la biblioteca digitale verso la prossima tappa congressuale che il Gruppo di studio fisserà per favorire la continuazione e il progresso di un ampio dibattito.
Gli onori di casa e i saluti sono stati portati da Lorenzo Baldacchini, professore della sede ravennate dell’Università di Bologna, e da Massimo Ricci Maccarini, assessore per i beni e le attività culturali della Provincia di Ravenna, che hanno espresso l’augurio, a chi è impegnato nello sviluppo delle biblioteche digitali, di vedere presto estendersi un sistema di ordinato e ricco interscambio di documenti digitali, accessibile dal computer personale di ogni cittadino, a tutto vantaggio della libera e democratica diffusione dell’informazione e della cultura.
Il lavoro del Gruppo di studio e il significato di questa prima presentazione del Manifesto sono stati quindi introdotti da Maurizio Messina, bibliotecario della Biblioteca Marciana di Venezia e coordinatore del Gruppo di studio sulle biblioteche digitali.
Nel marzo del 2003, ha iniziato Messina, si tenne a Ravenna un convegno dal titolo "Il linguaggio delle biblioteche digitali".
Gli interventi presentati in quella sede dai colleghi che vi presero parte sono stati un punto di partenza per le riflessioni e per l’attività del Gruppo di studio AIB sulle biblioteche digitali, che è composto oggi da Giovanni Bergamin, Angela Di Iorio, Maurizio Messina, Valdo Pasqui e Roberto Raieli.
La scelta di quel titolo, che si deve a Claudio Leombroni, si è rivelata con il tempo particolarmente felice: indagare il linguaggio o i linguaggi delle biblioteche digitali costituisce una chiave di interpretazione efficace e può rivelarci molto sull’effettiva capacità delle biblioteche digitali di svolgere quella funzione di intermediazione per l’accesso alle conoscenze che esse condividono con tutte le altre biblioteche.
La loro capacità di comunicare i propri contenuti e i propri servizi sembra a volte trovare un ostacolo nel diverso linguaggio e nei diversi comportamenti degli utenti della rete, che spesso non sono gli utenti con cui le biblioteche sono abituate a rapportarsi. Inoltre le biblioteche digitali giocano in un contesto in cui agiscono nuovi concorrenti, nuovi attori nella catena della creazione e dell’intermediazione della conoscenza, e anche con questi devono dialogare e confrontarsi.
Anche fra le stesse biblioteche digitali, e fra le comunità professionali cui fanno riferimento – pensiamo alla comunità degli archivi aperti e a quella della scansione digitale, anche senza scomodare gli altri domini – c’è una certa separatezza, e non pare si sia ancora trovato un linguaggio comune, come ad esempio per l’interoperabilità, che non è fatta solo di standard e protocolli, ma coinvolge aspetti di natura semantica, normativa, organizzativa e di gestione complessiva delle reti.
In questa giornata e mezza di lavoro, ha dunque ribadito Messina, viene presentato e discusso il Manifesto per le biblioteche digitali, un documento preparato dal gruppo di studio specialistico dell’AIB a partire dall’idea di Giovanni Bergamin, che pone molta attenzione ai processi comunicativi e all’interazione in rete fra le persone e le informazioni registrate: la prima tesi del Manifesto afferma, ad esempio, che "le biblioteche digitali sono conversazioni", cioè appunto interazioni fra un utente e una comunità di distribuzione di risorse informative.
Il Gruppo di studio, infine, ritiene il Manifesto un documento aperto, non conclusivo, come del resto non conclusivo, e mai pienamente denotante, può essere qualunque discorso sulle biblioteche digitali. Se è vero che "le biblioteche digitali sono conversazioni", è vero anche che queste conversazioni possono seguire percorsi imprevedibili, tali da non poter essere rispecchiati in un modello statico e univoco di biblioteca digitale.
Tavola rotonda coordinata da Maurizio Messina
La tavola rotonda che ha dato avvio al convegno è stata aperta dall’intervento di Lorenzo Baldacchini, il quale ha presentato la rinnovata Offerta formativa dell’Ateneo bolognese, non senza un’ampia introduzione sul tema dello sviluppo attuale della società dell’informazione.
Baldacchini ha portato subito l’attenzione su un quesito, se si debba parlare della cultura umana principalmente come di cultura del libro e della parola scritta, chiedendosi anzitutto se la scrittura in sé presa sia nata come rappresentazione di parole o come rappresentazione di idee.
Ha quindi ricordato una suggestiva carrellata di momenti epocali di svolta o di stabilizzazione significativi della storia della rappresentazione scritta: dalla pietra iconica, la Tartaria Tablets ritrovata in Romania e appartenente al IV millennio a. C., all’armarium del Mausoleo di Galla Placidia, alle aule e ai banchetti con i libri incatenati della Biblioteca Malatestiana, ai preziosi manoscritti dell’Umanesimo classico e cristiano, alla nascita della stampa rappresentata dalla Bibbia delle 42 linee, fino alla consolidazione dell’"uomo tipografico", definito ormai oggetto di studio archeologico. Tale percorso, in conclusione, può sostenere l’idea che le icone, così diffuse nella storia della rappresentazione grafica, ci riportano piuttosto alla scrittura come nata per rappresentare direttamente le idee, non le parole.
Quindi il professore ha presentato le due nuove lauree triennali dell’Università di Bologna – in Scienze archivistiche, librarie e dell’informazione documentaria e in Tecniche per la gestione dell’informazione documentaria e dei beni archivistici e librari – orientate verso i nuovi metodi di trattamento dell’informazione e della documentazione, e che considerano nel curriculum anche le competenze per la gestione delle biblioteche e degli archivi digitali, a dimostrazione di come prassi e consuetudini obsolete possano essere superate a partire dall’offerta formativa, per evitare che la professione si identifichi nella tecnica.
Successivamente al convegno, abbiamo proposto a Baldacchini la seguente domanda, per rilanciare alcune idee che ci sono parse nodali del suo discorso:
Osservando le modalità della comunicazione odierna, si può affermare che la forte tendenza alla comunicazione iconica promossa anche dal sistema digitale, per quanto effimera, ribadisca il principio originario della registrazione grafica come "conservazione di idee e non di parole"?
Baldacchini ha risposto:
«Nel convegno, la cui riuscita credo sia opinione condivisa da tutti, il tema dell’emergere della comunicazione iconica non poteva risultare centrale, tuttavia questioni come la registrazione e trasmissione sintetica sono inevitabilmente emerse.
La questione del rapporto tra scrittura e lingua parlata infatti non può essere elusa. Ipotesi recenti, certo ancora da verificare, sembrerebbero rimescolare alquanto la cronologia tradizionale delle origini della comunicazione scritta, retrodatandole considerevolmente (più di 4000 anni avanti l’era volgare), collocandola nell’Europa danubiana piuttosto che in Mesopotamia e soprattutto collegandola anche a fenomeni magico-religiosi oltre che squisitamente commerciali. In ogni caso un rapporto diretto tra lo scritto e la lingua parlata non sembra così scontato. E se la scrittura fosse nata proprio per consentire la trasmissione e la conservazione di messaggi anche tra chi parlava linguaggi differenti? Ipotesi seducente, ma al momento – temo – non dimostrabile.
Se osserviamo però quello che accade anche oggi con forme di comunicazione che sempre di più utilizzano immagini, spesso stereotipe (le icone di Windows, i segnali stradali e turistici), sembrerebbe evidente l’emergere di sistemi di segni, di scritture che non trasmettono più parole, ma idee, concetti, al di là della condivisione di una lingua parlata tra emittente e ricevente.
Quindi staremmo assistendo a una sorta di ritorno alle origini, a segni capaci di registrare e trasmettere idee più che parole? Certamente la scrittura e le forme della sua produzione sono piene di piccoli e grandi misteri, se ancora ci interroghiamo su cosa abbia veramente inventato Gutenberg o su quanto abbiano contribuito altre forme di riproduzione della parola (la litografia, la stereotipia) a fare del libro stampato un fenomeno planetario.
In questo quadro, la biblioteca digitale non è altro che la biblioteca tout court, ibrida nel DNA, e quasi tutti i 30 punti del Manifesto dovrebbero essere validi per qualunque tipo di biblioteca».
Il secondo intervento è stato quello di Angela Di Iorio, tecnico informatico presso l’Università "La Sapienza" di Roma, nonché componente del Gruppo di studio sulle biblioteche digitali, che ha curato la vera e propria Presentazione del Manifesto. Di Iorio ha esposto tutte le tesi del Manifesto, mettendo in evidenza le parole chiave che rappresentano i punti critici dello sviluppo delle biblioteche digitali. In particolare l’attenzione è stata posta sulla cooperazione tra gli attori della società della conoscenza, che diventa indispensabile per realizzare quella interoperabilità tecnologica che permette di far fluire la conoscenza tra le biblioteche digitali attraverso i servizi. La cooperazione su scala globale si realizza, pertanto, solo adottando un linguaggio comune, basato su standard e azioni coordinate, che permettano alle biblioteche digitali di interagire e migliorare i propri servizi per le comunità di utenti. Le architetture informative realizzate su collaborazioni interdisciplinari e centralità dell’utente devono quindi necessariamente rispettare criteri di flessibilità legati alla continua evoluzione tecnologica che deve ispirare all’aperta sperimentazione di strumenti per la raccolta, reperimento e conservazione delle informazioni, da sempre dominio della conoscenza e dell’etica dei bibliotecari. Nella disamina del documento e nella raccolta delle keyword, facendo un conteggio e la classifica delle occorrenze di parola singola nelle diverse tesi, è stato messo in evidenza da Di Iorio come le prime posizioni siano occupate dalle parole più critiche nel dibattito sulle biblioteche digitali. Nel Manifesto, infatti, emergono come parole con alta incidenza: Servizi, Accesso e Contenuti, che, come Risorse digitali, sono le priorità assolute per rispondere alle esigenze degli spesso nominati Utenti. L’esposizione è stata conclusa con una metafora: la biblioteca digitale è come una città circolare con diversi varchi di accesso, compreso quello dall'alto per una visione più completa dell'urbanistica, che ne permetta una migliore gestione nonchè una migliore salvaguardia delle risorse, proteggendole dagli abusi e dai deterioramenti.
La domanda, quasi scontata, proposta a Di Iorio dopo il convegno è stata:
Che significato si può dedurre considerando le cifre e le combinazioni delle varie occorrenze delle parole chiave emerse nell’analisi del Manifesto?
Di Iorio ha risposto ribadendo ancora una volta i risultati dell’analisi del Manifesto:
«La classifica delle occorrenze delle parole chiave del Manifesto dà un’immagine immediata delle coordinate verbali su cui si articolano le tesi e fa emergere le priorità degli obiettivi delle biblioteche digitali, secondo l’ideale proposta del Manifesto stesso. Quei modelli, principi e funzioni in cui si suddivide il Manifesto, vengono sintetizzati molto bene dalle parole chiave che maggiormente ricorrono in tutto il corpo del documento, la cui classifica comunica visivamente l’importanza di superare determinati problemi per dare concretezza nella realtà all’ideale di biblioteca digitale.
Servizi e accesso ai contenuti come risorse digitali avranno un’utilità certa se realizzati tenendo come riferimento costante la centralità dell’utente. Per raggiungere tali obiettivi è indispensabile però costruire un’infrastruttura comunicativa tra biblioteche digitali basata su standard di modelli, di metadati e di interfacce che favoriscano integrazione tra le diverse comunità. Si può concludere che la diffusione dei modelli può avvenire solo attraverso la cooperazione delle diverse biblioteche digitali adottando un linguaggio comune su cui sviluppare delle conversazioni».
Altro intervento centrale è stato la particolareggiata analisi delle tesi del Manifesto condotta da Giovanni Solimine (Università della Tuscia di Viterbo), che ha svolto una relazione sul tema Dentro le biblioteche digitali: organizzazione dei contenuti e servizi di accesso ai documenti.
La riflessione di Solimine sulla biblioteca digitale è partita dalla tesi n. 4: "Le biblioteche digitali sono biblioteche". All’estremo opposto, però, si trova la constatazione che nel mondo digitale cambia tutto: la collezione, i servizi di accesso, l’utente del servizio.
Forse, si chiede Solimine, non ci siamo interrogati abbastanza su una questione: le biblioteche digitali sono in primo luogo collezioni digitali o servizi digitali?
Basta togliere l’aggettivo digitale al termine biblioteca, al termine collezione, al termine servizio: le biblioteche sono essenzialmente servizi. Per questo motivo preoccupano alcuni progetti che tendono a relegare le biblioteche unicamente al ruolo di fornitrici di contenuti, espropriandole della funzione di intermediazione con la comunità degli utenti.
Per essere all’altezza della sfida che abbiamo di fronte, conclude allora Solimine, dovremo far evolvere anche le discipline professionali ed essere aperti a un rinnovamento della biblioteconomia che non si limiti ai suoi aspetti tecnici, ma che investa anche quelli epistemologici. Va elaborata una "biblioteconomia digitale", che sposti l’orizzonte di riferimento dalla mediazione catalografica alla mediazione informativa e più propriamente documentaria.
A Solimine abbiamo dunque voluto chiedere:
Ritiene utile avviare un dibattito sulla "biblioteconomia digitale", o basta aggiornare e potenziare i concetti della biblioteconomia tradizionale, in particolare quando si parla di gestione di risorse digitali della rete?
Solimine ha risposto:
«Il convegno – di cui mi ha colpito particolarmente la gran voglia di discutere che tutti i partecipanti hanno manifestato al termine di ogni sessione di lavoro – ha consentito di mettere a fuoco i tanti aspetti legati allo sviluppo delle biblioteche digitali affrontati nel Manifestoe ai quali non sempre si presta la necessaria attenzione.
Finora infatti l'attenzione si è solitamente concentrata su alcuni aspetti meramente tecnici, trascurando una visione complessiva delle questioni. A Ravenna, invece, si è discusso di principi e di buone pratiche, di esigenze degli utenti e dell'impatto del digitale sulle strutture, di metadati e di conservazione, di servizi e di strumenti operativi: cito alla rinfusa questi temi, proprio per cercare di segnalare l'esigenza di un approccio complessivo alla questione.
Da qui nasce la suggestione della "biblioteconomia digitale", alla quale ho fatto riferimento nel mio intervento, che ha il compito di spostare l’orizzonte di riferimento da una mera mediazione catalografica a una mediazione informativa e più propriamente documentaria. Il cambiamento che dobbiamo essere capaci di governare riguarda il passaggio da strumenti di lavoro concepiti in un’altra èra, e finora adattati all’ambiente digitale, a strumenti coerenti con il nuovo contesto operativo in cui ci troviamo a lavorare, connaturati a esso.
Ciò mi sembra particolarmente necessario quando si allestiscono collezioni digitali eterogenee – penso, per esempio, ad alcuni ambiti tematici verso i quali convergono libri a stampa antichi e moderni, documenti archivistici, documenti iconografici, documenti sonori e altro ancora –, per le quali dovremmo avere l’ambizione di controllare mediante un unico strumento i contenuti, gli aspetti formali e tutto ciò che correda un documento, realizzando strumenti di indicizzazione e ricerca content-based, in cui i descrittori siano dei metadati in senso letterale, di volta in volta della stessa natura dei dati cui si riferiscono.
Nutro molta fiducia verso gli archivi digitali che biblioteche, musei e archivi potranno costruire insieme, facendo convergere anche le tradizioni professionali e scientifiche che queste istituzioni rappresentano».
L’intervento di Maria Carla Sotgiu, direttore dell’Osservatorio dei programmi internazionali per le biblioteche e gli archivi del MiBAC, ha ampiamente definito il tema del Manifesto come strumento di advocacy per le biblioteche digitali.
Il Manifesto, ha detto Sotgiu, è un valido strumento per l’advocacy delle biblioteche digitali e le propone come un duttile mezzo di conoscenza e democrazia. È quindi necessario portare tali proposte sul concreto, e contemporaneamente sostenerle e difenderle.
Un valido sostegno è indispensabile anzitutto perchè le biblioteche digitali sono uno strumento tanto inevitabile quanto fragile: inevitabile perché gli strumenti e gli oggetti digitali rappresentano lo sviluppo necessario della comunicazione, dell’informazione e della conservazione della memoria, ma allo stesso tempo fragile perché legato alla velocità di cambiamento e alla volatilità delle tecnologie.
Insieme a questo le biblioteche digitali sono anche una sfida, in quanto strumenti di conoscenza e di fusione e commistione di diversi linguaggi, di democrazia e di opposizione al digital divide, di rigore classificatorio e di creatività multimediale.
I primi strumenti di advocacy sono il funzionamento e l’efficacia dei servizi forniti, i soli in grado di persuadere l’utente dell’utilità di una biblioteca digitale. È necessario allora ribadire la natura di “biblioteca” delle biblioteche digitali, e creare strumenti accessibili per tutti, in grado di adattarsi e di arricchirsi in maniera sostenibile. Altro problema rappresenta la gestione dei diritti dei produttori, che di fatto blocca molti progetti. È determinante dunque sostenere l’evoluzione delle norme sul copyright per evitare che la politica delle licenze e i sistemi di digital right management (DRM), possano trasformare le biblioteche digitali in un antidemocratico strumento di pay-per-read.
Per la soluzione di molti di questi problemi, continua Sotgiu, è necessario insistere su una migliore formazione professionale, che crei degli operatori coscienti delle evoluzione dei servizi e in grado di stringere alleanze con gli utenti, mettendo a disposizione servizi che promuovano la biblioteca digitale e attirino l’utente stesso, tra cui anche un saldo rapporto con il mondo dell’educazione e della formazione.
Altri possibili alleati sono i tecnici informatici e i gestori delle risorse economiche, a cui bisogna comunicare la visione di servizio per la conoscenza delle biblioteche digitali.
In conclusione, come miglior sistema di advocacy, bisogna puntare al massimo sulla qualità dello strumento biblioteca digitale, e l’AIB non deve realizzare solo un manifesto tecnico, ma anche un manifesto politico, che proponga linee d’azione concrete e trasversali con gli altri settori nei quali si sviluppano biblioteche digitali.
Conclusivo della mattinata è stato l’intervento di Massimo Mantellini, redattore del quotidiano online Punto informatico, che ha discusso la questione da Un altro punto di vista, necessariamente completivo delle riflessioni sviluppate dai bibliotecari.
La relazione di Mantellini è iniziata con la constatazione che l’ecologia dei contenuti digitali in rete presenta molti problemi. Se il Cluetrain Manifesto indica la più recente direzione di espansione e cambiamento del mondo dell’informazione, il Manifesto delle biblioteche digitali, dal canto suo, ribadisce che il mondo dell’informazione cambia anche nella professione bibliotecaria e rilancia la libera diffusione dei documenti digitali. D’altra parte si deve tenere in conto quale sia lo spirito di cambiamento proprio del sistema del copyright, che all’opposto fa sempre più da freno alla diffusione dei contenuti in rete.
Mantellini ha quindi mostrato molto suggestivamente tre tappe della crescita spropositata del copyright fino alla snaturazione. Alla sua nascita, nel 1710, il diritto di copia era di 14 anni, in quanto sistema di copertura temporanea dei diritti, poi è stato via via esteso nel rispetto dei soli interessi dei detentori dei diritti commerciali, sino all’ultimo ampliamento nel 2003, che ha prolungato il limite fino a circa un secolo, trasformando di fatto un diritto temporaneo in un diritto quasi permanente.
A Mantellini abbiamo chiesto:
Che battaglia potrebbe svolgere la comunità bibliotecaria insieme ad altre comunità, almeno in Italia, per tornare indietro sullo stravolgimento del principio del diritto d’autore?
La risposta, dal punto di vista informatico, è stata consonante con la nostra prospettiva:
«L'unica battaglia possibile mi pare essere quella della corretta informazione. Come in ogni altra questione che riguarda i diritti diffusi dei cittadini, sembra necessario sottolineare anche in questioni di questo tipo l’attenzione che le leggi dello Stato devono ai diversi interessi in campo. I bibliotecari, in quanto soggetti che gestiscono il diritto d'autore, possono incidere direttamente nel "sentire comune" verso una normativa ormai talmente radicalizzata nelle sue aspettative di tutela da essere un vero e proprio freno a ogni forma di trasmissione della conoscenza».