A, B e C: dialogo sulla conservazione di carte vecchie e nuove (Roma: Carocci, 2005) nasce da una sollecitazione nasce da una sollecitazione della Regione Veneto, desiderosa di disporre di uno strumento agile di divulgazione delle tematiche della conservazione dei beni librari, da porre a disposizione di bibliotecari ed archivisti. Alla luce delle novità introdotte dalla legge 106/2004 sul deposito legale delle pubblicazioni osservi giustamente che è necessaria una migliore definizione dello statuto di "bene culturale" attribuito alle raccolte librarie e delle competenze riguardanti la conservazione dei libri. Ritieni che, a questo proposito, la collaborazione tra biblioteche statali e biblioteche di enti locali possa contribuire alla realizzazione di una efficace tutela del patrimonio librario italiano?
Devo subito premettere che il livello della cooperazione tra Stato ed enti territoriali nel settore della tutela è estremamente debole. È appena il caso di ricordare che, nel 1972, con le Soprintendenze ai beni librari, lo Stato trasferì alle regioni anche la tutela sul materiale conservato presso le biblioteche di enti locali o di interesse locale. Fatte salve poche eccezioni, tali funzioni vennero, negli anni, largamente disattese ovvero, nella migliore delle ipotesi, esercitate solo a livello amministrativo. Si determinò così un profondo deficit di competenze tecniche che comportò la rinuncia all’esercizio di una conservazione al passo con i tempi da parte della maggioranza della biblioteche collegate, direttamente o indirettamente, agli enti territoriali. Per contro lo Stato continuò a indirizzare la propria azione quasi esclusivamente verso le biblioteche di propria competenza, limitandosi a modesti finanziamenti per interventi di restauro in biblioteche non statali, di solito ecclesiastiche.
Ora, con la creazione degli archivi regionali, prevista dalla legge sul deposito legale, sarà giocoforza uscire da questa impasse. Il mio suggerimento – sulla base dell’esperienza maturata recentemente grazie al lavoro in Regione Lombardia – è quello di applicare al settore della conservazione quei principi di cooperazione che così bene hanno funzionato nel campo delle biblioteche pubbliche. Una cooperazione, va da sé, che deve essere tra pari, senza rivendicare primati storici da una parte, né secessioni dall’altra. È indispensabile e urgente trovare forme di collaborazione cominciando dal livello periferico, collaborazioni grazie alle quali si riesca finalmente a intervenire e a risolvere i problemi che, giorno dopo giorno, affliggono le biblioteche sul territorio. Niente di elefantiaco, per carità. Piccoli gruppi formati da giovani restauratori ben preparati – e ormai ce ne sono – che intervengano rapidamente su territori regionali, o anche più vasti, e che possano contare, quando necessario, sull’ausilio dell’Istituto centrale di patologia del libro.
Il nuovo Codice dei beni culturali e la conservazione preventiva: sta davvero cambiando qualcosa? È il momento di promuovere a livello nazionale qualche azione destinata a costruire una "cultura dell'attenzione" e a lanciare, sulla scia di quanto è accaduto con la Biblioteca digitale italiana, un programma nazionale di tutela dei beni librari?
Il nuovo Codice non trascura la conservazione e, anche se resta qualche nodo irrisolto, soprattutto a livello teorico, a esso si deve guardare positivamente. Abbiamo imparato però che una norma, di per sé, non cambia la realtà. È trascorso quasi un decennio da quando una "buona" legge Veltroni affermò che presso gli Istituti centrali operavano "scuole di alta formazione" ma, dopo tutti questi anni, quelle scuole ancora non "operano". Oggi le condizioni ci sarebbero tutte e chissà che, contrariamente alla regola, la moneta buona non riesca finalmente a scacciare quella cattiva. Quanto a un programma nazionale di tutela dei beni librari, anche qui la situazione generale potrebbe essere favorevole; bisogna verificare la contestuale esistenza della volontà politica che non deve significare soltanto investimenti finanziari (peraltro non facili da reperire nelle contingenze economiche in cui si trova ora il Paese), quanto piuttosto un’attenzione per le tematiche della conservazione almeno pari a quella che viene dedicata alla digitalizzazione. Confesso, per inciso, che continuo a trascinarmi dietro "una valigia di perplessità" sul futuro conservativo delle "memorie digitali", mentre so benissimo come si fa a salvaguardare le "memorie analogiche", vale a dire gli originali, che, proprio grazie alla digitalizzazione, rischiano di essere dimenticati e, paradossalmente, tutelati oggi ancor meno di come lo furono nel secoli passati.
Educazione dello staff/educazione dell'utente: le poni tra le azioni di tutela indiretta dei materiali librari, e non si può che concordare pienamente. Tuttavia, non ti sembra che nel nostro Paese, a differenza di quanto accade nel mondo anglosassone, questi aspetti siano a dir poco sottovalutati, e circondati da un vago alone di inconsistenza, in quanto troppo "ovvi" per essere considerati vera "formazione"?
La formazione degli operatori – dalla quale discende l’educazione degli utenti – costituisce la base, insieme al controllo dei parametri ambientali, di quella che ho definito, ormai diversi anni fa, "prevenzione indiretta" poiché consente di tutelare il materiale librario senza determinare in esso alcuna alterazione, anzi senza neppure sfiorarlo. Anche grazie al Codice cui accennavi poco fa, facciamo voti affinché la preparazione dei restauratori raggiunga presto quel livello di eccellenza che il Codice stesso contempla: il piano prevede circa seimila ore di formazione articolate in cinque anni di tempo pieno per non più 15, massimo 20 allievi, impegnati nello studio della storia del libro e dei materiali librari, di chimica, fisica e scienze della natura; ed essi dedicheranno almeno la metà del tempo al restauro pratico sotto la guida di restauratori esperti.
Certo le cose cambiano quando si parla del bibliotecario conservatore. Se recentemente si stanno muovendo passi concreti verso la definizione di un percorso curricolare di alto livello che consenta, al termine degli studi, di acquisire la piena padronanza degli strumenti del lavoro in biblioteca, questi sforzi sono stati indirizzati verso l’operatore della biblioteca pubblica per il quale esiste una concreta domanda occupazionale. Poco si sta facendo e, temo, poco si farà in futuro per la formazione del bibliotecario conservatore, professionalità di "nicchia" per la quale la richiesta è assai limitata. Una soluzione potrebbe forse venire da quella cooperazione cui accennavo prima, grazie alla quale il bibliotecario si trova a operare fianco a fianco col restauratore aggiornandosi "on the job". Mi rendo conto che si tratta di un palliativo privo di qualsiasi organicità, ma faccio notare che, anche nei migliori corsi di laurea specialistica (o magistrale, se si preferisce) in archivistica e biblioteconomia, gli insegnamenti di conservazione non occupano più di 30-40 ore durante le quali è impensabile andare oltre una trattazione poco più che superficiale delle problematiche della conservazione e del restauro.
Ho notato che i trattamenti di deacidificazione di massa li hai collocati nel capitolo dedicato al restauro, depennandoli dall'area della prevenzione; concordo pienamente con le obiezioni di principio che muovi a questa tecnica, e sulla insufficienza dei dati sulla sua efficacia a lungo termine. Sappiamo però che il problema dell'acidità della carta moderna ha dimensioni gigantesche. Accettando questo procedimento come il minore dei mali, forse si può evitare il ricorso indiscriminato a iniziative di digitalizzazione e l'abbandono al loro destino dei materiali a rischio: non credi che, seguendo l'esempio di altri paesi, come Germania, Olanda, Svizzera e Stati Uniti, sarebbe opportuno invece investire in ricerca e in sperimentazione in questo settore?
La domanda è molto importante e assai ben formulata; spero di essere alla tua altezza riuscendo a coniugare sintesi e chiarezza poiché una risposta ben articolata richiederebbe uno spazio di cui non è possibile disporre in questa sede.
Preciso innanzitutto che, per come personalmente concepisco la conservazione, rientrano nei procedimenti preventivi solo quelli che non inducono cambiamenti nella struttura e nei materiali dei beni culturali. Poiché la deacidificazione di massa immette una sostanza alcalina nella carta – modificandone pertanto la composizione – essa dovrebbe necessariamente essere compresa tra i processi di restauro.
Il rapporto tra digitalizzazione e prevenzione è complesso poiché non sono convinto che la prima rientri tra le pratiche preventive. Di certo un documento digitalizzato dovrebbe subire minori sollecitazioni grazie alla consultazione ormai rarefatta ma – sorvolando sui traumi che sovente vengono prodotti in seguito alla ripresa digitale sulla struttura fisica delle opere – il primo, fondamentale obiettivo della digitalizzazione resta quello di mettere a disposizione, possibilmente in linea, testi altrimenti consultabili solo nella biblioteca in cui sono conservati.
Un’ultima considerazione sui procedimenti di massa. Negli anni ho acquisito una concezione del restauro come fenomeno sostanzialmente "individuale". Provo a spiegarmi meglio: sono ormai convinto che ogni intervento sia un caso a sé e che il restauro di massa, in primis la deacidificazione di massa, nella quale tutti i libri sono uguali e vengono trattati allo stesso modo non possa, proprio per questo, raggiungere risultati soddisfacenti. La conferma viene dal fatto che, nonostante i milioni di dollari che nel Nord America, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, furono investiti nell’attività di ricerca in questo campo, non si è venuti a capo di nulla. Secondo me ciò dipende dal fatto che l’idea della deacidificazione di massa cozza contro l’assioma, purtroppo poco diffuso, che non esistono due interventi di restauro perfettamente identici.
La regola generale è semplice e non credo si possa discutere: conservare il più alto livello di informazioni materiali delle quali l’opera è testimone e veicolo e, conseguentemente, limitare al massimo l’invasività dell’intervento. Stabiliti questi obiettivi le procedure da seguire variano caso per caso. Purtroppo l’opzione di ogni trattamento di massa rischia di infrangersi proprio contro questi principi che, una volta accettati, ammettono scarse eccezioni.