[AIB] AIB notizie 18 (2006), n. 2
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Del vendersi e dello svendersi

Andrea Marchitelli

Si è svolto a Ravenna, gli scorsi 10 e 11 febbraio, il convegno “Il linguaggio delle biblioteche digitali. 2: Un Manifesto per le biblioteche digitali”, che è diventato occasione di un interessante confronto sul tema tra professionisti, provenienti da diverse realtà e con diversi punti di vista. Ho partecipato alla tavola rotonda del venerdì pomeriggio poiché, come coordinatore del Gruppo AIB sul lavoro discontinuo, ero stato invitato a intervenire, per parlare del futuro della professione.

Nel corso di quell’intervento ho lanciato una provocazione, alla quale vorrei far qui seguito con qualche riflessione. Spero che il dibattito nato allora continui, con un certo rinnovato vigore.
In quell'occasione ho citato Brunella Longo che scrive, a proposito della formazione universitaria di ambito LIS: «i giovani dovrebbero essere preparati, con urgenza, al “sapersi vendere”, “a sapersi proporre al management, ai vari livelli decisionali degli interlocutori pubblici e privati come professionisti capaci di creare nuovi usi sociali ed economici dell’informazione”. Non solo un bagaglio di competenze tecniche, né solo quelle trasversali, ma la coscienza che questo tipo di formazione riesca finalmente a rispondere ai bisogni informativi della società » (Le competenze del cybrarian, «Biblioteche oggi», 22 (2004), 4, p. 20).
Seppure inserita nel contesto della formazione, dove a mio avviso lasciava poco spazio a interpretazioni, questa frase è stata contestata piuttosto aspramente da parte dei presenti.
Il concetto che esprimevo, e sul quale mi preme dunque tornare, andrebbe letto su due livelli:
1) quello, piuttosto esplicito nella citazione della Longo, secondo cui i bibliotecari dovrebbero imparare a far valere il loro lavoro e la loro professionalità davanti agli amministratori;
2) quello, che appena si coglie e che mi sta invece anche più a cuore, del mercato del lavoro.
Lo sdegno, che è arrivato all’accusa (certamente giocosa) di “mercimonio della cultura” e di “mancanza di deontologia”, mi pare manchi di forti basi di fondamento. Negli ultimi anni, infatti, l’occupazione, almeno e soprattutto nelle sue forme classiche, è in fortissimo calo. Ne troviamo ogni giorno conferma sui giornali e sugli altri mezzi di comunicazione. L’esternalizzazione la fa da padrona, nelle forme più diverse e discutibili, anche nel pubblico impiego, settore nel quale ancora oggi in Italia è impiegata la maggior parte di bibliotecari.
Le leggi finanziarie degli ultimi anni, infatti, non fanno altro che impedire agli enti pubblici di assumere nuovo personale. La situazione, già pesante per la quasi totale assenza di turn-over, è ulteriormente aggravata dalle sempre maggiori difficoltà per le pubbliche amministrazioni a ricorrere in modo diretto alle varie tipologie di lavoro parasubordinato (collaborazioni coordinate e continuative, a progetto, o occasionali in larghissima parte). Metodi di elusione: se un ente non può stipulare nuovi contratti di lavoro in numero sufficiente, o rinnovare tutti gli esistenti secondo necessità, si aggira il problema stipulando contratti di fornitura con società di servizi, oppure obbligando i lavoratori ad aprire una partita IVA, per i quali la finanziaria non pone limiti, o non così stringenti.
Ci troviamo dunque di fronte a una modifica, certamente peggiorativa, del sistema correntemente conosciuto come mercato del lavoro. Il fatto che in questo settore lavorativo sia preponderante la committenza pubblica, come viene sottolineato sempre, non inficia la sua definizione come quella di un “mercato”:

il luogo (anche in senso non fisico) deputato all'effettuazione degli scambi economici del sistema economico di riferimento o, secondo un'altra definizione più finalistica, l'insieme della domanda e dell'offerta, cioè dei venditori e degli acquirenti.

Dunque, la presenza di acquirenti, che siano di beni, servizi o di forza-lavoro, e di venditori rende il nostro sistema di riferimento definibile come “mercato”.
Sfugge allora lo scandalo a proposito del fatto che si parli di vendita, o che la si etichetti come immorale, se non ci scandalizza perché almeno altrettanto immorale è la pratica dell’acquisto, soprattutto se al massimo ribasso…
A questo punto, le due linee interpretative del “vendersi”, che prima illustravo, giungono a mio avviso a convergere: il bibliotecario, e mi riferisco in questo caso a chi ricopre posizioni con responsabilità gestionali, “compra male” quando decide o è costretto a ricorrere all’esternalizzazione, perché, il più delle volte, ha anche difficoltà a vendere se stesso ai propri amministratori. Si aprirebbe qui l’analisi sulle possibilità di riconoscimento, soprattutto sociale, della nostra professione, ma lo spazio e il tema che mi sono prefisso non me lo consentono: mi limito a dire che molto spesso noi bibliotecari siamo, di fronte agli altri, i primi detrattori di noi stessi e della nostra professionalità. Diversamente da quanto accade quando parliamo ai nostri convegni.
Il richiamo alla deontologia in tema di lavoro e del suo mercato, in particolare, è sicuramente opportuno, a patto che non si travisi l’onestà e la professionalità di tanti lavoratori, costretti a svendersi a condizioni che, in casi sempre più frequenti, rappresentano un vero e proprio sfruttamento. Se si è sul mercato, infatti, e noi –bibliotecari a contratto – ci siamo, non è indecoroso imparare a vendersi, commisurando il proprio valore professionale al compenso che è giusto ricevere. Il richiamo alla deontologia professionale sarà allora più corretto se le responsabilità verranno condivise, proporzionalmente, tra i vari attori sul mercato perché, come stabilisce il nostro codice (mi riferisco al Codice deontologico del bibliotecario),

il bibliotecario, nella propria attività professionale, ispira il proprio comportamento verso i colleghi di lavoro a correttezza, rispetto e spirito di collaborazione.

Anzi, non sarà il caso di cominciare ad applicare questa norma di comportamento, sottoponendo al Collegio dei probiviri quei casi in cui la mancanza di deontologia sia particolarmente vistosa?
L'AIB potrebbe dunque, in un dialogo che coinvolga le diverse tipologie di attori, a cominciare dalle altre associazioni professionali dell'ambito info-documentale per arrivare alle parti sociali, cogliere l'occasione per un generale ripensamento dei meccanismi del mercato del lavoro, come si è iniziato a fare, ad esempio, con la Piattaforma nazionale per gli specialisti dell'informazione e della documentazione presentata sullo scorso numero di questa rivista. Speriamo che il cammino intrapreso non si interrompa troppo presto.

marchitelli@aib.it


MARCHITELLI, Andrea. Del vendersi e dello svendersi «AIB notizie», 18 (2006), n. 2, p. 11.

Copyright AIB 2006-05, ultimo aggiornamento 2006-05-15 a cura di Zaira Maroccia
URL: http://www.aib.it/aib/editoria/n18/0211.htm3

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