AIB Notizie 10-11/2005
L’open access in un corso di formazione AIB
Sandra Di Majo
L’Associazione italiana biblioteche ha inaugurato la sua attività formativa 2005 con un corso dedicato all’open access. Il corso, affidato a Susanna Mornati, si è concluso con una tavola rotonda cui hanno partecipato Mauro Guerrini, Presidente dell’Associazione, Laura Tallandini per la Commissione Biblioteche della CRUI, Susanna Mornati e Paola Gargiulo in rappresentanza rispettivamente dei consorzi Cilea e Caspur, gli editori Michele Casalini ed Elsevier rappresentato da Luca Carpi de Resmini, la scrivente che ha curato il coordinamento dei lavori.
Obiettivo della tavola rotonda quello di favorire un confronto di idee su alcuni temi ancora controversi che costituiscono frequente oggetto di interrogativi, osservazioni, dibattito: il coordinamento delle iniziative di accesso aperto ed il loro finanziamento; la posizione dell’Associazione professionale ed il ruolo che i bibliotecari possono assumere nel nuovo scenario creatosi con lo sviluppo delle nuove forme di diffusione della conoscenza; gli strumenti attraverso cui può realizzarsi l’accesso aperto e le loro reciproche relazioni; il coinvolgimento degli autori; come gli editori affrontano la mutata situazione del mercato e quale modello economico ritengano compatibile.
La discussione ha preso avvio richiamando il successo dell’iniziativa promossa dalla Commissione Biblioteche CRUI in occasione del convegno svoltosi a Messina lo scorso novembre “Gli atenei italiani per l’Open Access: verso l’accesso aperto alla letteratura di ricerca”, diretta a coinvolgere le università italiane nel movimento: la quasi totalità di queste ha infatti aderito alla Dichiarazione di Berlino, mostrandosi di conseguenza favorevole a «sostenere nuove possibilità di disseminazione della conoscenza, non solo attraverso le modalità tradizionali ma anche e sempre più attraverso il paradigma dell’accesso aperto via Internet».
Un buon punto di partenza quindi, cui dovranno seguire concrete iniziative, in particolare l’attivazione delle strategie dirette a realizzare l’accesso aperto. Tra queste, richiamandosi ancora alla Dichiarazione di Berlino, la creazione di archivi in linea, istituzionali o disciplinari, in cui depositare e rendere liberamente accessibili ed utilizzabili, i contributi scientifici prodotti dalle università e dagli istituti di ricerca. Alcuni atenei si sono già avviati in questa direzione, ma, come evidenziato nella relazione del Gruppo di lavoro sull’editoria elettronica della Commissione Biblioteche CRUI (Lo stato dell’arte dell’editoria elettronica negli atenei italiani, a cura di Patrizia Cotoneschi e Giancarlo Pepeu, Firenze, 2004) e in contributi più recenti (Simone Sacchi, L’open access negli atenei italiani, «Biblioteche oggi», maggio 2005), in una situazione di frammentarietà a livello nazionale come nell’ambito di singole università. Risulta dunque evidente l’esigenza di un coordinamento non certo di tipo burocratico amministrativo, piuttosto a livello scientifico tecnico relativo al contenuto degli archivi come alle norme da seguire per assicurarne l’interoperabilità. Ed è a questo tipo di coordinamento che sembra essersi ispirata la Commissione Biblioteche CRUI quando ha proposto la stesura di raccomandazioni e l’elaborazione di linee guida affidandone l’incarico a Susanna Mornati.
La conferma viene dall’intervento di Laura Tallandini. Evidentemente la CRUI, attraverso la Commissione Biblioteche, ha supportato “l’evento Messina” perché profondamente convinta dell’importanza dell’OA al cui sviluppo intende dare sostegno. Ora va innanzi tutto messo in evidenza con quali modalità l’OA diventa un valore per la comunità accademica. È quindi necessaria una riflessione congiunta che consenta l’elaborazione di un documento (sostenibile in sede CRUI) di definizione delle linee guida con cui si ritiene debbano essere attuati i repository OA (istituzionali o disciplinari) onde evitare che essi si trasformino in depositi occasionali e disomogenei di documentazione, quindi in strumenti poco appetibili e di scarso riferimento per i ricercatori.
Gli archivi devono invece essere finalizzati a documentare, rendendola pubblicamente accessibile, l’attività di ricerca. Sembra al momento maggiormente percorribile la via degli archivi istituzionali perché, rispetto a quelli disciplinari, sconvolgono meno il mondo accademico dal momento che non pretendono di sostituirsi alla pubblicazione tradizionale, ma, se adeguatamente realizzati, costituiscono un potente veicolo d’informazione; mettono in evidenza il valore aggiunto dell’OA; introducono la consuetudine con la nuova dimensione informativa e ne fanno apprezzare le ricadute di servizio.
Negli archivi istituzionali, secondo le linee indicate anche da Jisc, dovrebbero essere depositati i materiali che rappresentano il segno oggettivo delle attività e degli interessi di ogni ateneo ed utili per la ricerca; tra questi le tesi di dottorato che ben esprimono gli indirizzi di ricerca avanzata di un’università (l’Università di Padova che sta approntando il suo server istituzionale Open Access comincerà inserendo nel proprio archivio le tesi relative alla IV tornata di dottorato, oltre quattrocento), i preprint dei lavori accettati, e tutte le volte che questo sia consentito, i lavori pubblicati (al momento il 70% circa degli editori dà questa opportunità), i metadati dei lavori pubblicati, gli atti di convegni e seminari, la letteratura grigia. Si deve ricordare che il valore di un repository è legato allo spessore dei materiali presenti, all’informazione che l’utente vi può trovare e quindi alla continuità del popolamento.
Relativamente allo stato delle linee guida, un breve e lucido aggiornamento presentato da Susanna Mornati fa desumere la presenza di qualche non lieve difficoltà. Il lavoro dovrebbe infatti contare sulla collaborazione di esperti non sempre reclutabili tra i delegati rettorali presso la Commissione Biblioteche CRUI, deputati del resto ad altre funzioni, ma anche fra altre risorse del mondo accademico, in particolare tra chi ha già maturato esperienze ed avviato progetti anche a carattere sperimentale. Dovrebbe inoltre avere a disposizione qualche finanziamento, per garantire un alto livello nella partecipazione. Se si può concordare con quanto affermato da Laura Tallandini, che meritano prioritaria attenzione gli aspetti organizzativi, ciò non significa poter ignorare quelli finanziari: organizzare un gruppo e riunirlo, condurre degli studi, stilare documenti, ha certamente un costo non solo in risorse umane. È possibile e corretto che se ne assumano il carico solo le istituzioni che consentono la partecipazione dei propri collaboratori? La questione è tornata nuovamente negli interventi di Susanna Mornati e Paola Gargiulo con riferimento alle iniziative promosse in direzione dell’open access da parte del Cilea e del Caspur (per un approfondimento delle quali si rinvia ai siti:
http://www.aepic.it
http://www.openarchives.it
http://www.uniciber.it/?id=62.
È vero che i due consorzi hanno dedicato risorse proprie alle iniziative, ma è ben difficile pensare che l’ampliamento di attività ad esse conseguente non necessiti di un potenziamento.
Cosa concludere? Secondo S. Di Majo si paga anche a questo livello l’assenza di un organismo centrale quale ad esempio il Joint Information Systems Committee che svolge, in Gran Bretagna, un’importante funzione di promozione e sostegno d’iniziative in direzione della libera circolazione dell’informazione scientifica, tra cui rientrano la costituzione e sviluppo degli archivi istituzionali (cfr. ad es. il vasto e articolato “Digital Repositories Programme”, http://www.jisc.ac.uk/index.cfm?name=programme_digital_repositories, finanziato nel 2005 per 4 milioni di sterline). È ancora il JISC che ha promosso e finanziato nel 2004 un’indagine rivolta a sondare l’atteggiamento degli autori rispetto al self-archiving (per un approfondimento degli obiettivi, articolazione, risultati dell’indagine, vedi http://www.keyperspectives.co.uk).
Quest’ultimo riferimento ha offerto l’opportunità di toccare un altro tema di ovvio rilievo quale l’attitudine degli autori verso l’accesso aperto: senza la loro sensibilizzazione e disponibilità è ben difficile pensare alla possibilità di successo esteso. Per quanto gli autori siano favorevoli alla facilità di diffusione ed accesso alla produzione scientifica, non mancano motivi di perplessità. Si ritengono ad esempio meno garantite, nelle pubblicazioni open access, la qualità e la conservazione di lungo periodo. Si esprimono incertezze relativamente alla tutela del diritto d’autore (nella doppia direzione di infrangerlo e di essere vittima di infrazioni) e soprattutto ancora si ritiene che la valutazione della propria attività scientifica sia meglio garantita dal maggior prestigio delle tradizionali forme di pubblicazione. L’impressione che si ricava dagli interventi nell’ambito della tavola rotonda, fa ritenere che alcune perplessità siano in fase di superamento. È stato in particolare Antonio Fantoni, coordinatore di Ciber, a sottolineare la prospettiva che la maggiore diffusione ed impatto delle pubblicazioni open access, obbligano gli autori ad un maggior rigore, quindi a mantenere alto il livello qualitativo dei loro contributi. È un’osservazione certamente convincente. Ma molto comunque ancora è il percorso da compiere per superare dubbi ed incertezze, abitudini e consuetudini consolidate nel tempo, differenze nei comportamenti legate al campo di attività e alla disciplina di appartenenza degli autori. Anche se guardato con diffidenza dagli autori che lo ritengono “lesivo” della loro autonomia, un mezzo può essere quello di rendere obbligatoria l’auto-archiviazione dei lavori che hanno beneficiato di finanziamento pubblico. Autorevoli esempi al riguardo già esistono: è questa la proposta fatta, nel Regno Unito, dal RCUK (Research Councils UK), un’associazione strategica tra più Research Councils operanti a sostegno della ricerca, formazione ed innovazione (v. Covering note on Access to Research Outputs: Further Consultation Details, http://www.rcuk.ac.uk/access/cover.asp).
Negli Stati Uniti l’House of Representatives Committee on Appropriations nel luglio 2004 ha raccomandato che il National Insitute of Health (l’organizzazione di ricerca biomedica più importante del Governo federale ed il maggiore ente pubblico USA per la distribuzione di fondi per la ricerca biomedica) attivi un progetto per assicurare l’archiviazione in PubMed Central, entro sei mesi dalla pubblicazione, di tutti gli articoli derivanti da ricerche da lui finanziate.
Gli autori non sono i soli ad esprimere perplessità. Sia pure per ragioni diverse, una decisa opposizione all’open access viene spesso espressa dalle società scientifiche e professionali che intravedono il pericolo di perdere gli introiti derivanti dagli abbonamenti alle riviste da loro prodotte, spesso il finanziamento principale per la loro attività. Una posizione che potrebbe essere condivisa anche dall’Associazione italiana biblioteche ancora un po’ timida, secondo il parere della scrivente, nell’esprimere la sua adesione alla Dichiarazione di Berlino. Rispondendo, Mauro Guerrini ha osservato che una testimonianza dell’interesse con cui l’AIB guarda al tema dell’accesso aperto nei suoi molteplici aspetti è già nell’aver voluto un corso sull’argomento. I riflessi sulla sua attività editoriale e sulla professione dovranno essere certamente oggetto di attenta riflessione. Il contributo che i bibliotecari possono dare all’affermazione della libera circolazione dell’informazione è ampio ed articolato: dal sostegno alle iniziative, alla sensibilizzazione degli autori e all’eventuale aiuto per l’auto archiviazione, alla partecipazione alle attività dirette alla costituzione degli archivi istituzionali o alle altre strategie. È quindi essenziale l’acquisizione da parte loro delle conoscenze generali e tecniche necessarie per partecipare alle innovazioni con piena consapevolezza e competenza evitando il rischio, che pur esiste, della marginalizzazione.
Tornando sul tema delle diverse vie attraverso cui realizzare l’accesso aperto (archivi istituzionali o disciplinari; riviste open access), ulteriori approfondimenti sembrano necessari in particolare sui loro reciproci rapporti, sui rapporti con le University Press e con le riviste tradizionali. C’è ad esempio chi ritiene che, più che sugli archivi istituzionali, le università dovrebbero puntare sulle University Press (creandole o potenziandole); o chi, disegnando un processo di continuità, considera gli archivi istituzionali quale anticamera degli open journal e questi come i più o meno prossimi sostituti delle riviste tradizionali (quelle prodotte dagli editori commerciali). La conclusione che si può trarre dalla discussione è che archivi istituzionali, open journal e riviste tradizionali possano e debbano, per quanto è dato al momento prevedere, vivere in parallelo. Del resto a chi gioverebbe ipotizzare la scomparsa di una componente del processo comunicativo di rilievo quali gli editori commerciali? Ma allora, potrà il movimento per l’accesso aperto risolvere la crisi determinata dall’abnorme aumento dei prezzi che ha caratterizzato il mercato dei periodici, in particolare negli ultimi decenni del secolo scorso? È un interrogativo scomodo a cui si può rispondere in via indiretta constatando alcuni fatti: la costante crescita in breve periodo del numero delle riviste open access (anche se non paragonabile a quello delle riviste prodotte dagli editori commerciali); la possibilità riconosciuta ormai da molti editori (tra cui Elsevier) di riversare negli archivi istituzionali gli articoli già pubblicati sulle loro riviste; il contenimento nell’aumento annuale dei prezzi (anche se a questo riguardo l’analisi andrebbe approfondita e posta in relazione allo sviluppo degli acquisti consortili dell’intero pacchetto di riviste prodotte da un editore). E non è certo casuale il fatto che Scopus, la nuova base di dati di recente lanciata da Elsevier, registri in certa misura anche la letteratura open access. È vero che quest’ultimo dato può essere interpretato anche come un’abile mossa per contrastare Google Scholar, ma ciò non contraddice con vedervi il riconoscimento, da parte dell’editore, dell’abbondanza della letteratura open access, del suo forte impatto, del crescente riferimento per i ricercatori.
È fuor di dubbio quindi che il movimento per l’accesso aperto non ha lasciato indifferenti gli editori che ne hanno recepito la rapida crescita e le possibilità di espansione e successo, anche se al momento, come notato da Luca Carpi a proposito di Elsevier, non ritengono maturata la possibilità di definire una strategia complessiva e preferiscono muoversi per piccoli passi. Lo stesso atteggiamento di vigile cautela è stato espresso da Michele Casalini che ha in particolare riferito sulla recente iniziativa di EIO (Editoria italiana in linea) certamente coraggiosa ed innovativa per l’ambiente editoriale italiano e sulla collaborazione con la Firenze University Press, la prima in Italia a produrre pubblicazioni online ed a renderle parzialmente disponibili in accesso aperto (è possibile accedere gratuitamente alle pubblicazioni in linea, l’eventuale stampa è a pagamento).
Sull’esperienza fiorentina è intervenuta Patrizia Cotoneschi ed è stato incoraggiante sentire che cominciano a guardare con fiducia alla FUP e quindi a consegnarle i propri lavori, anche ricercatori operanti nell’ambito delle scienze cosiddette “dure”, i più legati forse ai titoli ed agli editori di maggiore e più certo impatto. Come per gli archivi istituzionali, una preoccupazione non piccola è che le University Press fungano da servizio soprattutto per la letteratura “minore” e non abbiano di conseguenza la possibilità di porsi, soprattutto per alcune discipline, in condizione paritaria o addirittura competiviva con l’editoria commerciale.
Concludendo, quali le prospettive dell’open access? Ancora una domanda che non può avere risposte certe. Non c’è dubbio tuttavia ch’esso sta guadagnando terreno e che la CRUI, Laura Tallandini lo ha ribadito, intende sostenerne lo sviluppo anche cercando il necessario finanziamento. L’interesse principale per la crescita di OA risiede nell’ambito della Ricerca e dell’Istruzione superiore. L’evoluzione potrebbe essere nell’assunzione, da parte della Commissione Biblioteche CRUI, di un ruolo “Jisc-like”, un tavolo nazionale dove vengano discusse le tematiche avanzate. Qui si potrebbe attivare un gruppo di lavoro che individui specifici progetti e selezioni e finanzi le migliori proposte di realizzazione. Ma sono ancora meccanismi appena abbozzati su cui si dovrà certamente tornare.
Nel frattempo una prova ulteriore della “corsa” di OA a livello internazionale, in chiusura della tavola rotonda, è venuta da una comunicazione telefonica di Antonella De Robbio, rappresentante per l’Italia alla 33ma Conferenza generale dell’Unesco, Commissione V Comunicazione e Informazione, Parigi, 11-13 ottobre 2005, che ha comunicato l’adesione dell’Unesco al movimento, sulla base della risoluzione per l’accesso aperto presentata dalla delegazione italiana (MAE e MIUR).
Ringrazio per collaborazione alla stesura del rapporto in particolare Paola Gargiulo, Susanna Mornati, Laura Tallandini.
s.dimajo@sns.it
DI MAJO, Sandra. L'open access in un corso di formazione AIB. «AIB Notizie», 17 (2005), n. 10-11, p. 11-13.
Copyright AIB, ultimo aggiornamento 2006-02-18
a cura di Franco Nasella
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