di Carlo Favale
È noto come le condizioni in cui si attua la vita di un individuo possano essere cagione di curiose coincidenze: a chi non è capitato di osservare la somiglianza, anche fisionomica, che intercorre talvolta tra un padrone e il suo cane, o il fatto di alzare la cornetta per telefonare a qualcuno e accorgersi che il qualcuno in questione è già in linea perché stava telefonandoci a sua volta? Anche nella mia vita si manifesta una coincidenza degna di nota.
Io lavoro in città, ma abito in una località ad una quarantina di chilometri di distanza ed impiego circa un'ora di treno per recarmi in biblioteca: sì, perché sono bibliotecario. E proprio questa attività e il mio quotidiano viaggio mattutino, sono motivo della coincidenza.
Come molti pendolari sanno certamente, sulle "tradotte del lavoro" si vedono quasi sempre le stesse facce, molte si conoscono e con alcune si fa anche amicizia: tuttavia, alle 6,30 del mattino, pochi sono disposti a forme di socializzazione di particolare dinamismo ed entusiasmo. L'attività più diffusa è la lettura: di un giornale, di un libro, di un testo di studio, di un documento di lavoro. Alcuni scribacchiano: scolari che hanno tralasciato le fonti del sapere per non sottrarre tempo prezioso alla play-station, o professionisti che mettono a punto una relazione; si nota qualche computer portatile. Qualcuno pensa o sogna ad occhi aperti: così come, ad occhi aperti o chiusi, altri sonnecchiano. Una coppia di fidanzatini si tiene per mano in un silenzio gonfio di parole, rimpiangendo fin da subito il momento della separazione all'arrivo.
Eccola la coincidenza della mia vita: quando scendo dal treno e mi reco in biblioteca trovo spesso una umanità non dissimile. Calati in un silenzio (stavolta non sonnacchioso, ma richiesto e dovuto) ritrovo altri che leggono, che studiano, che scrivono: anche quelli col computer. Ritrovo anche coloro che sognano ad occhi aperti e, più raramente, ad occhi chiusi. E, come ben sapeva chi scrisse "...galeotto fu il libro...", capitano anche i fidanzatini.
È in questo contesto di quotidiana familiarità che non potevo fare a meno di notare un nuovo personaggio. A dire la verità l'avrei notato comunque vista l'esteriorità della sua figura e, soprattutto, del suo atteggiamento.
L'inusitato suo abbigliamento e la personalissima acconciatura avrebbero valso, di per se stessi, una curiosa osservazione e non di più. Indossava un paio di larghi calzoni di una già verde mimetica infilati in pesanti calzettoni di lana grigio topo (anche se nutro qualche dubbio sul fatto che il grigio dipendesse dal colore) a loro volta infilati in una sorta di sandali francescani. Il torso era intabarrato in un maglione alla norvegese che faceva il pendant con i calzettoni (non solo per il grigio) e in quella che conservava le tracce di un'originaria, antica giubba di piuma.
Il pelo che avvolgeva la cima era quantitativamente ammirevole, anche se non c'era una chiara distinzione tra l'onor del mento e il crine: la barba ed i capelli in unico groviglio, ricordavano i batuffoli di lana da materasso, sia nel colore che nella forma (e per l'odore dimostravano di aver avuto le stesse frequentazioni dei calzettoni e del resto). Sulla sommità del capolavoro una bandana nera (o quasi) era posta a corona di un naso camuso e di due occhi grandi, spalancati, spiritati e fissi. Fissi su di me.
Ecco perché mi aveva colpito: non tanto per l'aspetto, ma per il fatto che mi fissasse. La carrozza era una littorina ed io ero seduto più o meno al centro: lui era salito in una stazione intermedia e per il resto del percorso non aveva fatto altro che fissarmi. Dapprima mi ero imbarazzato, poi avevo cominciato ad inquietarmi: non nascondo che mi era cresciuto un certo timore di aggressione violenta. Ma poi, un po' per il fatto che non si muoveva, un po' l'osservazione della tranquillità degli altri (e l'assicurazione della loro presenza), un po' il tran tran ipnotico del treno sui binari, avevo cominciato a pensare che forse non ce l'aveva con me, che forse era strabico, che forse dormiva ad occhi aperti e così arrivai a destinazione definitivamente tranquillizzato. Non così nei giorni successivi. Per altri quattro giorni saliva alla stessa stazione, si poneva alla medesima distanza da me quale che fosse il posto che occupavo, e cominciava a fissarmi.
Debbo dire sinceramente che ormai ero in uno stato di apprensione notevole e facevo il viaggio tenendolo discretamente, ma costantemente, sotto osservazione. Il terzo giorno, anche se non pioveva da settimane né era nelle previsioni, mi portai appresso un ombrello pieghevole da adoperare all'uopo a mo' di manganello. Il quinto giorno, mentre sceso dal treno camminavo pensieroso verso il lavoro, giunsi alla risoluzione di rivolgermi alle forze dell'ordine. Sì, prima del ritorno a casa sarei andato dai carabinieri. Solo il fatto di aver preso questa decisione mi rasserenò, e procedetti, finalmente a cuor leggero, verso la biblioteca.
Espletate le normali attività preliminari cominciarono ad arrivare gli utenti. Chi chiedeva un libro in prestito, chi consultava i cataloghi, chi semplicemente leggeva i giornali o studiava o, comunque, si occupava di molte di quelle stesse cose che si facevano anche in treno. Ero lì ormai da un paio d'ore e, approfittando di un momento di quiete, stavo lavorando a documenti da aggiornare. Ad un certo punto, un po' per distogliermi dalla concentrazione, un po' perché forse attirato dal prolungato silenzio che mi avvolgeva, alzai lo sguardo oltre il mio banco di lavoro e lo vidi.
Era lì, di fronte a me, alla stessa distanza che manteneva in treno. E mi fissava. Da quanto tempo? Il mio sguardo corse ad un tagliacarte che era lì a portata di mano e al telefono, a portata dell'altra mano. Stavo per prendere l'uno e l'altro quando, forse l'abitudine professionale che prevalse, gli domandai:
«Prego, desidera?»
Dopo un attimo di incertezza si avvicinò stancamente verso il banco, preceduto dai calzettoni e dal maglione. O meglio: dal loro odore. A distanza ravvicinata i suoi occhi, sempre spalancati, sembravano meno spiritati: quasi fiduciosi.
«Mi dica.»
«Scusi, non sono pratico.»
«Se posso esserle di aiuto...»
«Prestate libri, è vero?»
«Beh sì, anche: è una delle nostre attività.»
«Ecco, io avrei bisogno di un libro.»
Avevo accantonato ormai la tensione e non pensavo più né al tagliacarte né al telefono. Il soggetto parlava con una voce pacata, tranquilla: velata da una certa tristezza, o quasi rassegnazione.
«È un libro preciso? Altrimenti può consultare i cataloghi per farsi un'idea.»
«Le ho detto che non me ne intendo: non so come si fa. Non so neanche cosa cercare»
«Ma di cosa ha bisogno?»
«Medicine.»
Mi stava per venire da rispondere "vada in farmacia!", ma mi trattenni: nel mio intimo, un po' ridendo e un po' vergognandomi, pensai che il bibliotecario come il prete, il medico e l'avvocato, deve rispettare le esigenze di tutti e prestare il proprio aiuto.
«Ma, mi faccia capire: le interessa un trattato di farmacologia?»
«Beh, insomma, sì, un libro che parli di medicine... come sono fatte... a cosa servono...»
«Ho capito. Adesso dò un'occhiata, ma non credo che abbiamo qualcosa del genere: vede, siamo una biblioteca di pubblica lettura non una biblioteca specialistica» risposi intanto che consultavo il catalogo informatizzato. «Infatti... già... non abbiamo nessun testo tecnico in materia... però... ecco... ci sarebbe, se può interessarla, un testo del '700: "Dei rimedi che possono quando lenire et quando risanare li umani malanni".»
«Va bene, va bene.»
«Ma è un testo antico, ha un interesse storico, o letterario, più che tecnico.»
«Va bene, va bene» cominciava a spazientirsi.
«A lei» dissi inserendo un segnalibro tra le pagine dopo aver registrato i dati da uno sdrucito documento dal quale si evinceva l'età di 38 anni: molti meno di quanti ne dimostrasse. «Può tenerlo per un mese: la scadenza è scritta sul segnalibro.»
Ringraziò e se ne andò. Per la verità non è che facessi molto conto nella puntuale restituzione. Anzi, proprio l'avrei dato ormai per disperso. Il libro! Anche lui, del resto, non si vedeva più sul treno, e, scevro del timore di ulteriori apprensioni, non ci pensai più.
Dopo un po' di tempo, mentre ero al mio posto in biblioteca, si presentò un distinto signore, vestito in un gradevole casual, totalmente rasato di capelli e di barba, dall'apparente età di 35-40 anni. Doveva restituire un libro. Quando lo presi tra le mani trasalii: era quello che avevo dato un mese prima al derelitto del treno, ed erano passati esattamente trenta giorni.
«Ma...» stavo per esprimere la mia perplessità.
«Non si meravigli, egregio signore! Sono io la persona a cui ha dato il libro in prestito» disse ridendo allegramente e con uno sguardo sincero quanto sicuro di sé.
«Io non so cosa pensare» risposi. «Mi verrebbe da credere che lei in questo libro di antica farmacopea abbia trovato l'elisir del benessere e della serenità!»
«In un certo senso. Ma se lei può allontanarsi posso volentieri soddisfare la sua curiosità, magari davanti ad un aperitivo, visto che è mezzogiorno: d'altra parte è un po' anche merito suo se sono stato oggetto del mio manifesto rifiorire».
Fu così che, nel tempo di un paio di bicchieri, mi spiegò come, circa quindici anni prima, aveva sposato una stupenda ragazza che lavorava nel suo avviato studio di commercialista e come, nel giro di un paio di anni, non solo era riuscita a farsi intestare tutte le proprietà, ma si era impadronita anche dei segreti, spesso delicati, dei clienti dello studio. Una volta ottenuto ciò si era anche trasformata sia fisicamente che psicologicamente. La graziosa ragazza, pur mantenendole, aveva seppellito le sue fattezze in una rudezza mascolina che (a suo dire) era utile per trattare con i clienti e con i rappresentanti del fisco: nell'intimità era poi sempre più trascurata fino ad una insopportabile trasandatezza. L'angelo della sua vita, approfittando dell'ormai conquistato potere, gli aveva sottratto anche, non solo il piacere dell'amore, ma anche il conforto dell'affetto e della sodale progettazione coniugale. Al pover'uomo non era rimasto neanche il lavoro, sia perché oramai era tutto nelle mani di lei, sia perché nel corso degli anni si era sempre più rinchiuso in una inane depressione.
Un giorno pensò ad una possibile soluzione: pur mantenendo modi gentili ed affettuosi, cominciò a ridursi ad una larva repellente, nella speranza che ella fosse indotta a lasciarlo. Abbandono del tetto coniugale, separazione per colpa, conseguente riappropriazione della sua vita. Ma lei non ci cascava (ammesso che se ne fosse accorta): semplicemente lo ignorava. D'altra parte non è che lo vedesse molto.
Poco tempo fa gli venne l'idea di cercare qualche rimedio che la facesse tornare quella che era stata: sotto quello strato di egoismo, cattiveria, sciatteria, doveva pure essere rimasta traccia dell'antica angelicità! Di qui il libro sui farmaci e la speranza di trovarne uno che potesse servire al recupero. Senonché nel corso di questo mese, vuoi per le tensioni del lavoro, vuoi per la malvagità accumulata, lei morì per arresto cardiaco, e così lui, anche se in realtà avrebbe voluto ritrovare il bel rapporto di una volta, si trovò tuttavia liberato.
Dopo averlo salutato e avergli augurato una rinnovata e più felice vita futura, tornai al mio lavoro meditando sulla vacuità delle speranze umane e sulla dittatura del Fato che ci governa. Stavo ancora meditando su queste gravi ed immanenti questioni, quando, sfogliando con distratta curiosità il libro che avevo prestato allo sventurato, mi accorsi che il segnalibro era collocato in corrispondenza del capitolo: "Veleni et altre sostanze naturali et alchemiche che possono arrecare nocumento fin anche morte".