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Programma 53º Congresso AIB | ||||||
La professione del bibliotecario nella società multiculturale
Domenico
Ciccarello
AbstractSi affronta il rapporto tra professione bibliotecaria e società multiculturale, partendo dal concetto di biblioteca inclusiva e le sue implicazioni rispetto al riconoscimento, per fortuna ormai abbastanza diffuso, grazie ai vari Manifesti, alle Linee guida dell'IFLA e dell'UNESCO ecc., della biblioteca pubblica come agente di sostegno alle categorie sociali più svantaggiate. Si ribadisce l'importante ruolo della biblioteca nelle politiche di integrazione sociale dei nuovi cittadini. Si menzionano alcune tra le migliori esperienze a livello nazionale e internazionale per quanto riguarda i piani di aggiornamento del personale, le dinamiche della comunicazione interculturale, le strategie per la costruzione di raccolte multilingue, la partnership con i mediatori culturali. Sono accennati anche i persistenti impedimenti legislativi rispetto al reclutamento di personale non-UE. Si evidenziano i vantaggi che potrebbero derivare da un cambiamento culturale all'interno del personale delle biblioteche. Riqualificazione, aggiornamento, formazione di personale di origine straniera, borse di studio e scambi internazionali, mentoring sono alcuni degli strumenti del cambiamento. Si discute brevemente la situazione della formazione LIS in ambito accademico ed eventuali opportunità di sviluppo (curricula più mirati, incentivi all'iscrizione di studenti stranieri). Si conclude prendendo in considerazione un possibile scenario – in un futuro non molto lontano – in cui lo staff nelle nostre biblioteche sarà comunemente formato da persone di provenienza etnica, linguistica e culturale diversa.
Non introdurrò l'intervento, per ragioni di brevità, con notazioni sull'assetto multiculturale della società e statistiche sulla presenza straniera nel nostro paese (anche se potrebbero risultare interessanti, e dall'esito nient'affatto scontato), non vi farò l'excursus dei principi internazionali (dell'IFLA, dell'Unesco, del Parlamento europeo ecc.) sulla biblioteca multiculturale, rinuncio di conseguenza a parlarvi del nesso tra i principi internazionali e l'attività di sensibilizzazione, documentazione e approfondimento che ormai da diversi anni caratterizza il Gruppo di studio sulle biblioteche multiculturali dell'AIB [1], nel tentativo di sensibilizzare e promuovere anche in Italia il dibattito e l'innovazione attorno a queste tematiche. Si tratta in buona parte di riferimenti già noti, che comunque potrete trovare abbondantemente nelle pagine di AIB-WEB [2]. Molto semplicemente, si può sintetizzare il succo del nostro impegno nell'ideale di "biblioteca inclusiva", che con molto piacere ho sentito richiamare anche dal Segretario dell'IFLA Peter Lor durante la prolusione di ieri, quando parlava di Medellín e delle biblioteche colombiane, e che vorrei porre come punto di partenza del nostro ragionamento. La biblioteca inclusiva è capace di accogliere e servire ogni possibile forma di diversità. La biblioteca pubblica è inclusiva nella misura in cui riesce ad analizzare, progettare e realizzare i propri servizi tenendo conto della diversità del pubblico per età, nazionalità, condizione fisica, carattere sessuale, ceto sociale e cultura di provenienza, credo politico e religioso, genere, lingue utilizzate ecc. La biblioteca inclusiva non è genericamente aperta a tutti, ma piuttosto intende riconoscere nello specifico ciascun segmento, ciascun gruppo significativo della comunità territoriale. Il nostro centro di interesse, pertanto, è nel riconoscimento della biblioteca pubblica come agente di sostegno alle categorie sociali più svantaggiate, tra cui sicuramente vi sono gli immigrati, e riguarda dunque le scelte operative delle istituzioni bibliotecarie, soprattutto in termini di cooperazione, per far fronte efficacemente ai bisogni degli individui e delle comunità straniere residenti in Italia. Ci diciamo spesso che gli immigrati non devono essere percepiti solo come un problema, al contrario costituiscono una risorsa, una fonte di ricchezza per la società, sono in ogni caso portatori di tutti i diritti legati alla convivenza civile. Nello stesso tempo, bisogna riconoscere come dato di partenza che gli immigrati in genere sono persone che al loro arrivo in Italia si trovano in una situazione di svantaggio sociale. E allora: cosa dovrebbe accadere quando gli immigrati incontrano la biblioteca pubblica? La biblioteca pubblica non è un'istituzione neutrale, al contrario, realizza pienamente la propria finalità istituzionale solo se riesce a porsi obiettivi positivi per il cambiamento; il servizio bibliotecario pubblico dunque può e deve accogliere la sfida di contribuire al riequilibrio e al riposizionamento sociale di queste comunità, di sostenere il loro processo di integrazione nella nostra società (se non erro, Peter Lor ha parlato di «camera di compensazione delle disuguaglianze sociali»). Se ciò è vero, il bibliotecario pubblico, come tutti i bibliotecari, avendo il compito fondamentale di difendere l'equità di servizio e la parità di trattamento degli utenti, dovrebbe contribuire a promuovere la cittadinanza attiva degli immigrati. C'è un termine inglese, empowerment, che meglio di altri esprime questo concetto, e ci riporta, se ci pensiamo bene, alle radici stesse della public library come strumento di autodeterminazione e di sviluppo personale. I bibliotecari devono essere capaci di lavorare in quest'orizzonte sociale agendo sostanzialmente sulle due coordinate della biblioteca multiculturale identificate molto bene dal Manifesto Unesco: «incoraggiare il dialogo interculturale» e «proteggere la diversità culturale». Rispettare le identità culturali senza pretendere di annullare le differenze è l'unico presupposto per l'interazione e lo scambio culturale. Per ricollegarmi più da vicino al tema della professione, che interessa un po' tutto l'impianto scientifico del Congresso AIB di quest'anno, nel rispondere alla domanda su quali requisiti funzionali debba avere il bibliotecario in quanto professionista che opera in una società multiculturale, io ripeterei oggi con forza la stessa conclusione a cui ero pervenuto qualche anno fa, discutendo per il Rapporto AIB sulle biblioteche italiane del 2004 alcuni problemi concreti che oggi limitano un'organizzazione efficace delle biblioteche italiane in senso multiculturale: «Il nodo più importante da sciogliere, tuttavia, risiede nell'assenza di soluzioni organizzative a livello di staff. La presenza nelle biblioteche di personale delle minoranze etniche con pari dignità, condizione lavorativa e opportunità di carriera rispetto al resto del personale, potrebbe servire a minimizzare molti dei problemi linguistici, comunicativi, e solo secondariamente tecnico-gestionali, che oggi frenano le capacità di sviluppo dei servizi multiculturali» [3]. Per entrare brevemente nel merito, riprenderò, con modifiche e integrazioni, alcuni punti che ho già avuto modo di sviluppare in occasione della redazione di un modulo di formazione online per il progetto europeo ABSIDE [4]. Anticipo subito che, a mio parere, la parte sostanziale di un ipotetico profilo di multicultural librarian non è quella tecnico-catalografica ma consiste piuttosto, ogni volta che ci riferiamo al bibliotecario della biblioteca pubblica, in un insieme di aspetti etici e relazionali, obiettivamente molto difficili da definire, codificare e trasferire in termini di contenuti formativi e di apprendimento, quali: l'atteggiamento psicologico e il comportamento nei confronti degli utenti diversi da noi; l'amichevolezza e l'apertura mentale; la consapevolezza del ruolo attrattivo che la biblioteca deve avere; la capacità di comunicare efficacemente, di gestire situazioni e risolvere problemi in un contesto interculturale e multilingue; e così via. Se non si vive la professione in una simile prospettiva, sarà forse meglio che ci si dedichi ad altre professioni meno user-oriented. Il bibliotecario pubblico, in definitiva, dovrebbe essere consapevole di lavorare in una struttura che esiste anzitutto come centro di incontro culturale, crocevia di saperi, di aspettative e prospettive di apprendimento di pubblici diversi. Da questo punto di vista è impossibile separare l'analisi del profilo professionale dalla valutazione della missione della biblioteca pubblica, sulla quale, al di là delle dichiarazioni di principio che ci trovano tutti più o meno d'accordo, dobbiamo ancora lavorare molto. Dovremmo infatti affrontare in primis un dubbio fondamentale: siamo sicuri (= crediamo ancora) che la biblioteca debba appartenere più alla sfera culturale che alla sfera dei servizi sociali? E dunque: come si fa a conciliare – ammesso che questo sia il nostro compito primario – queste due facce del servizio bibliotecario? Tutto questo, per noi in quanto professionisti, ha evidenti connotazioni per il codice etico, prima ancora che tecniche. Fa pienamente parte del bagaglio deontologico dei bibliotecari l'essere coscienti di lavorare per un servizio bibliotecario in grado di contribuire alla parificazione delle opportunità per le fasce e i gruppi sociali che l'assetto socio-culturale del nostro paese tende a escludere, a tenere lontani. Anziché rivolgersi esclusivamente, o prevalentemente, al pubblico locale già colto e studioso, le biblioteche pubbliche e i bibliotecari che vi operano dovrebbero riconoscersi in una missione che è anzitutto di utilità sociale. Il valore del servizio bibliotecario dovrebbe essere reso immediatamente percepibile e sensibile proprio dalla popolazione con minori risorse di partenza, perciò più favorevolmente disposta ad apprendere, ad usare la biblioteca come fattore di sviluppo personale. In fondo, a pensarci bene, la biblioteca pubblica come istituto proprio delle democrazie occidentali è nata proprio su queste basi ideologiche. In base a quanto abbiamo detto finora, si presuppone, evidentemente, da parte dei bibliotecari anzitutto il possesso di un'efficacia comunicativa generale, il sapere comunicare in situazioni di scambio e interazione tra culture diverse, e anche tutta una serie di competenze linguistiche non improvvisate, cioè abilità e padronanza del linguaggio di tipo pratico, da impiegare possibilmente in più lingue nelle situazioni e nelle transazioni quotidiane che aiutano il buon funzionamento di una biblioteca orientata al plurilinguismo; e deve essere chiaro a tutti che non è – o non è solo – una questione di traslitterazione dei frontespizi. Nelle più recenti esperienze di formazione interculturale per bibliotecari, i percorsi di aggiornamento per il personale in servizio sono stati molto correttamente e opportunamente orientati in tale direzione. Potrei richiamare, tra le molte esperienze già attuate o in corso di attuazione, quella della Provincia di Milano, quella del Comune di Torino, quella della Regione Toscana attraverso il Polo di documentazione interculturale della Biblioteca Lazzeriniana di Prato e del Centro interculturale di Arezzo, e ancora la Provincia di Ravenna, la Provincia di Roma, le Province autonome di Trento e di Bolzano ecc. I contenuti delle attività formative hanno spaziato dall'analisi di comunità alla progettazione dei servizi, dalla comunicazione interculturale alla promozione del servizio, alla catalogazione e al reference. E in effetti, al di là degli aspetti generali legati allo stile comportamentale, linguistico e comunicativo, altri requisiti non meno importanti per il bibliotecario multiculturale, a carattere, se vogliamo, più specialistico, riguardano senz'altro: la capacità di dominare le potenzialità delle tecnologie informatiche per sviluppare strumenti utili alle comunità diverse; la conoscenza delle risorse multimediali per l'apprendimento linguistico e per la costruzione delle raccolte multilingui; lo sviluppo di servizi multilingui per mezzo della rete, ad esempio informazione di fonte pubblica, informazione di comunità, business information; la capacità di mettere in atto strategie di promozione ed estensione dei servizi, e così via. Abilità speciali tradizionalmente associate ai compiti del bibliotecario, come la selezione degli acquisti, la catalogazione e l'informazione e la consulenza bibliografica, richiedono complesse specializzazioni, se il servizio deve essere erogato, come ci chiedono le direttive internazionali, tenendo conto soprattutto della lingua preferita dall'utente (normalmente, la lingua madre, quella del paese di origine). Spostandoci dall'aggiornamento professionale per il personale in servizio alla sperimentazione di nuove forme di organizzazione dello staff, discuterei anzitutto la questione del possibile impiego di mediatori culturali [5]. All'impiego dei mediatori fanno riferimento la legge n. 40 del 1998 Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero e il D. lgs. n. 286, sempre del 1998 Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, che all'art. 42, riguardante le misure di integrazione sociale, prevede che gli enti territoriali, in collaborazione con le associazioni di stranieri, favoriscano «la realizzazione di convenzioni [...] per l'impiego all'interno delle proprie strutture di stranieri, titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore a due anni, in qualità di mediatori interculturali», e inoltre «l'organizzazione di corsi di formazione, ispirati a criteri di convivenza in una società multiculturale e di prevenzione di comportamenti discriminatori, xenofobi o razzisti, destinati agli operatori degli organi e uffici pubblici e degli enti privati che hanno rapporti abituali con stranieri». La legge n. 189/2002 (la cosiddetta "Bossi-Fini") su questo punto non ha apportato cambiamenti rilevanti alla normativa precedente. Qualche caso concreto di impiego mirato dei mediatori a beneficio delle biblioteche esiste già, vi faccio solo un paio di esempi italiani e uno straniero che mi sembra il più indicativo tra quelli che conosco. A Torino da qualche anno, attraverso un progetto denominato "Mediatori in biblioteca", mediatori e mediatrici culturali dell'Ufficio Stranieri, opportunamente formati, sono presenti presso alcune sedi del sistema bibliotecario urbano torinese, per dare informazioni ai/alle cittadini/e stranieri/e sui servizi della città, orientamento al lavoro, richiesta/rinnovo titolo di soggiorno e altre procedure. Ancora più diretta, più "spinta" l'iniziativa della Biblioteca "Lazzerini" di Prato, che da alcuni anni sta impiegando con contratti di collaborazione esterna un laureato di origine marocchina e un mediatore di madrelingua cinese per l'offerta di servizi di orientamento e informazione alle rispettive comunità di lingua araba e cinese che frequentano la biblioteca. Estremamente interessante, per rimanere nell'ambito di situazioni europee assai vicine alla nostra, è un caso danese, quello del sistema urbano che fa capo alla Odense Public Library. Due bibliotecari, Mortensen e Weisbjerg, nel corso della Conferenza internazionale (IFLA Satellite meeting) "The multicultural library: staff training for success", tenuta a Stoccolma l'anno scorso, hanno presentato un importante progetto, "Cross-Cultural Bridge Building" [6]. Il progetto ha formato, grazie al finanziamento degli assessorati locali alla cultura e ai servizi sociali, una dozzina di mediatori culturali di madrelingua non danese, sottraendoli dal sistema assistenziale per disoccupati (social welfare) e inserendoli a pieno titolo nelle biblioteche cittadine al termine di un periodo di stage dedicato alla formazione e all'affiancamento (mentoring) con il personale in servizio. I due slogan usati a Odense erano molto significativi, il primo «You can't build bridges long-distance" (Non si possono costruire ponti rimanendo a distanza) evidenziando che lo staff multietnico è il più potente strumento di fidelizzazione del pubblico straniero, il secondo «Only real jobs can make a difference» (Solo il lavoro vero può fare la differenza) offrendo un chiaro riferimento all'equità di accesso alla professione bibliotecaria, che ha costituito il punto cardine e il successo finale del progetto stesso. Bisogna anche dire, per completezza, che il progetto era ispirato da una precedente indagine-pilota, condotta ad Aahrus qualche anno prima, dal titolo "Le biblioteche: un rifugio per l'integrazione"@ 7@, basata sullo studio del modo specifico con cui le comunità straniere tendono a usare il servizio bibliotecario. Da quell'indagine era emerso molto chiaramente che potere impiegare staff di origine non danese e della stessa lingua madre degli utenti è un fattore di successo straordinario, sia dal punto di vista della ricaduta psicologica sul pubblico, cioè della percezione che gli utenti hanno della biblioteca come ambiente "per loro", sia dell'efficacia e della qualità complessiva del servizio. Infine, rimanendo alla Danimarca, accenno al fatto che all'iniziativa-pilota di Odense si è ora idealmente ricollegata una massiccia campagna nazionale, tesa a incentivare l'iscrizione degli studenti di origine straniera ai corsi di biblioteconomia delle università. La campagna è stata promossa congiuntamente dal Ministero per i rifugiati, l'immigrazione e l'integrazione, dalla Royal School of Library and Information Science e dalla Bibliotekarforbundet (l'associazione dei bibliotecari danesi), e ricorda molto da vicino una nota esperienza degli USA, in cui l'American Library Association (ALA), verso la metà degli anni Novanta, ha iniziato con successo a finanziare per un milione e mezzo di dollari un programma triennale denominato "Spectrum", finalizzato proprio al reclutamento di bibliotecari delle minoranze etniche, attraverso l'erogazione di contributi a una serie di scuole di biblioteconomia appositamente consorziate, che a loro volta hanno assegnato borse di studio per facilitare la frequenza dei master a studenti di provenienza non statunitense. Il programma ha supportato anche la realizzazione di workshop annuali sui temi della diversità etnica del personale bibliotecario. Uno di questi workshop, diventato poi il titolo di un volume a stampa, si chiamava "Stop talking, start doing!" (Smetti di parlare, comincia a fare!!). Uno slogan che senz'altro potrebbe andar bene anche per le nostre biblioteche oggi. E sul punto, che ritengo cruciale, della formazione di settore, permettetemi di soffermarmi ancora un momento. È stato detto molto bene da Tallandini a questo congresso che l'attuale sistema formativo delle università ha bisogno di una profonda riforma di metodologie e contenuti, se vuole rispondere efficacemente ai reali bisogni delle istituzioni bibliotecarie. Ecco, sotto quest'aspetto la biblioteconomia multiculturale, in effetti, mette a nudo alcuni nodi e carenze strutturali dei dispositivi educativi e formativi italiani. Bisogna infatti evidenziare che a livello di atenei raramente esiste una "strategia ambientale" orientata consapevolmente alla coesistenza armonica, al rispetto reciproco e al dialogo culturale tra studenti, personale tecnico-amministrativo, ricercatori, docenti portatori di lingue e valori culturali diversi. Una strategia che dovrebbe riflettersi anche nella programmazione dei contenuti e delle attività curricolari, diventando una linea di priorità nella gestione della comunicazione istituzionale e nello sviluppo dei programmi dei corsi di biblioteconomia e scienze dell'informazione. In altre parole, si dimostra necessaria una politica attiva di incoraggiamento e di consapevolezza delle opportunità lavorative concrete che possono essere perseguite attraverso i corsi, sul tipo dell'esperienza danese di cui vi dicevo prima. Attraverso lo sviluppo di programmi complementari all'educazione curricolare, tra cui l'erogazione di borse di studio per la frequenza dei corsi, o progetti di tirocini residenziali, stage, scambi culturali, gemellaggi ecc., certamente si può facilitare e in un certo senso provare ad anticipare, in un contesto di lavoro "rilassato" e controllato, il contatto tra la domanda e l'offerta che può venire dalle istituzioni interessate a reclutare personale delle minoranze etniche. Ma per quanto riguarda il cuore del problema, e cioè quale percorso curricolare bisognerebbe immaginare per i corsi di biblioteconomia e scienze dell'informazione, farei senz'altro riferimento al Rapporto European curriculum reflections on library and information science education, curato nel 2005 dalla Royal School of Library and Information Science di Copenaghen [8]. L'ottavo capitolo del Rapporto riguarda nello specifico la formazione del bibliotecario in un contesto multiculturale. Vi si definiscono tre diversi livelli formativi (primo ciclo, bachelor, corrispondente alla nostra laurea triennale, secondo ciclo, master, corrispondente ai nostri master e lauree specialistiche, e infine un livello di formazione permanente, o per tutto l'arco della vita, in inglese denominato lifelong learning). Per ciascuno dei livelli, si individuano gli obiettivi formativi essenziali, nel modo seguente: A) Primo livello = ogni professionista dell'informazione dovrebbe possedere competenze generali relative alla comunicazione multiculturale intesa come cornice generale del lavoro del bibliotecario. Infatti, comunicare con persone di culture diverse (cioè gruppi sociali, generazioni e gruppi etnici diversi) costituisce parte integrante delle funzioni ordinarie di tutti i bibliotecari in qualunque tipo di biblioteca; B) Secondo livello = l'obiettivo del secondo livello (Master) dovrebbe essere una profonda consapevolezza dell'eredità multiculturale e sensibilità verso i differenti bisogni di informazione delle società multietniche e multiculturali, nel tentativo di formare professionisti dell'informazione più qualificati, che siano capaci di affrontare la complessità e le sfide con soluzioni innovative. C) Formazione permanente = come evidenziato nella Dichiarazione di Praga, la formazione permanente è un mezzo per accrescere la competitività e l'occupazione, ma anche per affrontare rapidi mutamenti tecnologici, economici e sociali, come quello della nuova società multiculturale. In rapporto proprio al tema multiculturale, i programmi LIS possono offrire percorsi di apprendimento alternativi ai corsi standard, cioè opportunità di apprendimento non formale (formazione online, formazione a distanza, formazione degli adulti) e il riconoscimento di percorsi di apprendimento pregressi (anche di esperienze sul campo) nell'ambito dei servizi multiculturali. In questo modo si può offrire la giusta integrazione tra competenze multiculturali conseguite in corsi accademici e competenze professionali acquisite nell'ambiente di lavoro, allargando l'accesso all'istruzione universitaria a un'ampia gamma di utenti (ad esempio, studenti part-time, professionisti che intendono progredire nella loro carriera lavorativa, disoccupati che vogliono migliorare le proprie possibilità occupazionali ecc.). Si tratta in definitiva di un percorso formativo di tipo trasversale, come aveva già suggerito Lorenzo Baldacchini nel 2004, intervenendo alla sessione di Bibliocom sullo staff multietnico in biblioteca. Baldacchini si poneva questa domanda: «È preferibile che la preparazione multietnica preceda quella biblioteconomica o viceversa? Cioè è meglio formare un operatore della multiculturalità e poi farne un bibliotecario in sede di specializzazione o il percorso deve essere inverso? Mi pare di poter dire che, se accettiamo che una dimensione multiculturale riguarda ormai ogni tipo di biblioteca e non solo quelle pubbliche che ne sono certo investite in misura più massiccia, dobbiamo trarre la conclusione che sarebbe auspicabile che il percorso sia parallelo alla formazione biblioteconomica, anzi sia strettamente integrato con essa e quindi debba permeare entrambi i gradini della formazione universitaria, sia quello triennale che quello specialistico, anche se al momento questa appare la soluzione più difficile e comunque la meno presente nella realtà universitaria» [9]. Avviandomi alla conclusione, vi richiamo brevemente alcuni passaggi delle linee guida IFLA sui servizi multiculturali che riassumono molto bene quanto abbiamo cercato di dire finora: «La composizione del personale dovrebbe, per quanto possibile, rispecchiare quella della popolazione servita. Se, ad esempio, la comunità di riferimento comprende un certo gruppo etnico in misura significativa, alcuni suoi membri dovrebbero far parte del personale della biblioteca. Questo servirà a dimostrare che la biblioteca costituisce un servizio per tutti i membri della comunità, contribuendo ad attirare utenti da tutti i suoi segmenti. [...] Le biblioteche dovrebbero riflettere le società multiculturali anche nel personale impiegato, assicurando che la sua composizione rifletta davvero i diversi gruppi etnici, linguistici e culturali che la biblioteca serve. [...] Le autorità bibliotecarie dovrebbero incoraggiare l'impiego di persone che possiedono significative conoscenze, capacità ed abilità linguistiche e culturali» [10]. Per realizzare pienamente tali obiettivi, occorre vengano superati o almeno attenuati alcuni ostacoli di tipo legislativo (riguardanti le biblioteche a titolarità pubblica) ed è altresì essenziale che le biblioteche considerino prioritaria la sfida multiculturale. Per quanto riguarda le opportunità lasciate in piedi dall'attuale quadro normativo, in generale occorrerà distinguere i naturalizzati (cittadini italiani a tutti gli effetti, e quindi possibili destinatari di assunzione nel pubblico impiego, anche a tempo pieno e indeterminato), dagli stranieri residenti nell'Unione Europea, per i quali pure vi è la possibilità di assunzione come prevede il D. Lgs. 165/2001, con alcuni limiti indicati dal D.P.C.M. 174/1994, tenendo infine presente per gli stranieri extracomunitari la possibilità di assunzione è totalmente esclusa, sul fondamento dell'art. 51 della Costituzione, su cui poggia tutta la legislazione successiva che indica come prerequisito necessario il «possesso della cittadinanza italiana», ed è quindi possibile ricorrere soltanto alle forme di collaborazione esterna previste. Quanto al carattere prioritario dell'impegno interculturale, l'idea che vogliamo rafforzare è che tra i compiti primari della biblioteca pubblica vi sia quello di rafforzare la coesione sociale e di far crescere il cosiddetto capitale sociale. Oggi più che mai, abbiamo bisogno di bibliotecari pienamente a conoscenza delle questioni sociali che si pongono in un mondo globalizzato, e in un contesto di crescente spinta migratoria, quale è il nostro, abbiamo bisogno di professionisti consapevoli e partecipi della missione culturale, educativa/informativa e socializzante della biblioteca pubblica, servono operatori in grado di facilitare, grazie alle proprie competenze generali e specifiche, la salvaguardia e l'accesso al patrimonio multiculturale, e la comunicazione e lo scambio delle diverse esperienze culturali, al di là delle apparenti barriere etnico-geografiche e linguistiche. In alcuni paesi evoluti temi di questo genere sono diventati da molto tempo oggetto privilegiato e insistente delle politiche ministeriali, come ho avuto di ricordare alcuni anni fa a proposito dell'Inghilterra [11]. La speranza, naturalmente, è che lo stesso processo prenda piede al più presto anche in Italia [12].
Note[1] Il Gruppo di studio, formato nel 2001 all'interno della Commissione nazionale Biblioteche pubbliche, allora coordinata da Elena Boretti, si è sviluppato autonomamente dal 2003, e ne sono attualmente componenti Maria Angela Barlotti, Lucia Bassanese, Claudia Cardinali (dal 2006 in sostituzione di Chiara Rabitti), Marta Paccagnella. [2] Le pagine web del Gruppo di studio sono accessibili all'indirizzo: <http://www.aib.it/aib/commiss/mc/mc.htm>. [3] Domenico Ciccarello, Biblioteche pubbliche: i servizi multiculturali, in: Rapporto sulle biblioteche italiane 2004, Roma: AIB, 2004, p. 45-51. [4] Modulo formativo a distanza La biblioteca multilingue e multietnica, a cura di Domenico Ciccarello, <http://www.abside.net/corsi/multling/index1.htm>. [5] Chi è il mediatore culturale? Cito da Nerio Agostini: «Il mediatore interculturale è una nuova figura di professionista, non ancora ben delineata a livello istituzionale, quasi sempre un immigrato con un buon livello culturale, a volte anche un laureato italiano. Egli facilita l'inserimento dei cittadini stranieri nel contesto sociale italiano, esercitando la funzione di tramite tra i bisogni dei migranti e le risposte offerte dai servizi pubblici, biblioteca compresa. È un professionista che opera nel rispetto della neutralità e dell'equidistanza tra istituzione e utente. Quando provengono dagli stessi paesi di origine dei migranti, i mediatori assicurano interventi non solo di interpretariato linguistico, ma anche di orientamento culturale. Per stabilire un vero dialogo fra utenti stranieri e operatori dei servizi, oltre alla traduzione delle parole, è necessaria una decodifica delle idee e dei comportamenti. Ogni lingua infatti veicola messaggi, valori e credenze che sono elementi costitutivi della comunicazione: la loro corretta interpretazione è alla base di un efficace dialogo» (Nerio Agostini, Professionista multiculturale o multiculturalità nella professione? Forme di inserimento e/o collaborazione in biblioteca, contributo presentato alla sessione del Congresso AIB 2004 dedicata dal nostro Gruppo di studio al tema Lo staff multietnico in biblioteca, <http://www.aib.it/aib/congr/c51/semmult.htm>). [6] Sören Dahl Mortensen – Bente Lund Weisbjerg, "You can't build bridges long-distance": project Cross-Cultural Bridge Building. L'abstract, insieme agli altri papers della Conferenza satellite di Stoccolma, è all'indirizzo <http://www.ifla-stockholm2005.se/summaries.html>. [7] Lo studio danese è disponibile in traduzione inglese, col titolo Refuge for integration: a study of how the Ethnic minorities in Denmark use the libraries, Aarhus: Aarhus Public Libraries, 2001. [8] European curriculum reflections on library and information science education, edited by Leif Kajberg and Leif Lørring, Copenhagen: The Royal School of Library and Information Science, 2005. La traduzione delle citazioni riportate in quest'intervento è mia e non ha carattere ufficiale. [9] Lorenzo Baldacchini, Lo staff multietnico e la preparazione universitaria, contributo presentato alla sessione del Congresso AIB 2004 dedicata dal nostro Gruppo di studio al tema Lo staff multietnico in biblioteca, <http://www.aib.it/aib/congr/c51/semmult.htm>. [10] Linee guida per i servizi multiculturali nelle biblioteche pubbliche, a cura della Commissione nazionale Biblioteche pubbliche; testi di Lucia Bassanese, Domenico Ciccarello, Paolo Messina, Chiara Rabitti, traduzione italiana del documento IFLA Multicultural communities: guidelines for library services, a cura di Alberta Dellepiane e Adriana Pietrangeli, Roma: AIB, 2003. Il documento IFLA anche a: <http://www.ifla.org/VII/s32/pub/multiculturali-linee-guida-it.pdf>. [11] Mi riferisco in particolare ai seguenti documenti: Library and Information Commission, Libraries: the essence of inclusion, London: LIC, 1997; Department for Culture, Media and Sport. Libraries, Information and Archives Division, Libraries for all: social inclusion in public libraries: policy guidance for local authorities in England, London: DCMS, 1999, cfr.: Domenico Ciccarello, Politiche per il servizio bibliotecario pubblico in Inghilterra: 1997-2001, «Bollettino AIB», 41 (2001), n. 4, p. 455-475. [12] Lascerebbero ben sperare, a tal riguardo, le affermazioni contenute nel primo paragrafo del documento Linee di politica bibliotecaria per le autonomie: «In particolare le biblioteche pubbliche degli Enti Locali sono istituti culturali che assolvono, in vario grado e con differenti forme, a compiti di: [... ]; rafforzamento dell'identità della comunità locale, nella sua dimensione plurale, dinamica e multiculturale; inclusione sociale, attraverso l'uso socializzato dei mezzi di informazione e comunicazione». |
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