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Programma 53º Congresso AIB | ||||||
Lavoro precario e/o discontinuo : analisi della situazione "reale" ed iniziativa sindacale
Francesco
Sinopoli
Durante gli anni Novanta e nel decennio in corso, le spinte, provenienti soprattutto dal mondo imprenditoriale, verso un abbattimento delle cosiddette rigidità, hanno trovato anche in Italia una puntuale risposta legislativa e contrattuale su gran parte degli aspetti considerati limitanti per la cosiddetta competitività. In realtà, la tanto sbandierata flessibilità organizzativa, l'innovazione di processo e di prodotto sono rimaste un'eccezione come dimostrano i livelli di produttività odierni. Come i fatti hanno dimostrato, il vero obiettivo di molte imprese Italiane, dopo gli accordi di Maastricht, nell'impossibilità di competere giocando sulla svalutazione della lira, era ottenere un risparmio consistente sul costo del lavoro. A crescere è stata solo la precarietà. In alcuni casi, oltre ad una legislazione di favore nei confronti della flessibilità, è intervenuto l'abuso vero e proprio. Pensiamo ai contratti di collaborazione, a cui la legge 30 oggi, nel privato, ha solo cambiato nome. Peculiarità tutta italiana. Sulla carta lavoro autonomo nei fatti una tipologia contrattuale "spuria" che costa quasi la metà di un rapporto di lavoro dipendente ma permette di utilizzare il prestatore d'opera come un lavoratore subordinato tout court. Il datore di lavoro pubblico, dal canto suo, stretto tra i vincoli derivanti dal patto di stabilità interno e le opportunità della nuova legislazione, si è adeguato velocemente alle peggiori pratiche del privato, abusi compresi. La crescita delle collaborazioni coordinate e continuative rappresenta l'aspetto più evidente di quanto diciamo. All'inizio si è trattato di consulenze e rapporti di lavoro realmente flessibili ma, in pochissimi anni, anche a causa delle assunzioni bloccate, le collaborazioni sono diventate sostitutive del rapporto di lavoro dipendente. Nelle università, settore di cui mi occupo in modo particolare assieme alla ricerca e agli altri mondi della conoscenza, oltre a quanto evidenziato per il pubblico impiego nel suo complesso, la diffusione della precarietà è stata l'effetto "collaterale", ma ad avviso di chi scrive ampiamente prevedibile, di riforme anche importanti, come l'introduzione dell'autonomia, rimaste tuttavia incomplete e senza alcuna previsione d'investimenti conseguenti ed adeguati. Allo stesso tempo, scelte relative all'organizzazione del lavoro e alla gestione degli uffici, come quelle che hanno dato il via ormai molti anni or sono a esternalizzazioni e appalti, che non sempre hanno prodotto l'effetto di qualificare i servizi si sono tradotte troppo spesso in un puro risparmio sul costo del lavoro facendo crescere in alcuni casi il costo del servizio per la collettività. La situazione delle biblioteche e più in generale degli specialisti dell'informazione e della documentazione è direttamente legata a questa condizione ormai strutturale dell'organizzazione del lavoro e dei servizi che produce effetti diretti sulla condizione degli operatori e sulla loro professionalità. Ma il problema della precarietà è più generale, investe tutti gli ambiti della vita di una persona. Senza dubbio, questo fenomeno, assieme alle scarse risorse destinate alla mobilità sociale (sostegno al reddito nelle fasi di non lavoro, borse di studio, politiche abitative degne di questo nome), al prolungamento abnorme di certi percorsi educativi, alla conformazione gerontocratica di importanti strutture della nostra società (pubblica amministrazione, università, professioni) contribuisce in modo sensibile a un allungamento forzato della "giovinezza". Oggi non si diventa adulti né finendo gli studi né entrando nel mondo del lavoro, ma soltanto facendo un figlio o uscendo dalla casa dei genitori. Il fatto che il 75% delle nuove assunzioni avvenga attraverso contratti di lavoro atipici e precari dà conto non solo delle gravi forme di "aggiramento" delle norme che regolano il lavoro subordinato, ma anche della presenza di una volontà di dominio – una sorta di pedagogia neoautoritaria – che tenta di egemonizzare il mercato del lavoro. Ma veniamo, brevemente, ad inquadrare dal punto di vista delle dimensioni numeriche il contesto a cui stiamo facendo riferimento. Stando ai dati degli iscritti al fondo gestione separata INPS (la cassa previdenziale in cui versano i contributi i collaboratori coordinati e continuativi o a progetto), si parlerebbe di oltre tre milioni di lavoratori parasubordinati. Considerando però, che le posizioni attive sono più dei lavoratori (il caso di chi ad esempio ha aperto una posizione e non l'ha richiusa oppure ha aperto più posizioni) i dati effettivi ci comunicano un numero inferiore ai tre milioni ma comunque notevole: quasi un milione e duecentomila. Tanti e non solo giovani. L'età media oscilla intorno ai 35 anni. È tuttavia vero che la stragrande maggioranza dei giovani inizia a lavorare con un contratto di collaborazione o a progetto. I lavoratori somministrati (prima della legge 30 interinali) sono invece molti di meno: circa 500.000. I contratti di lavoro a tempo determinato che dovrebbero rappresentare una lavoro discontinuo più tutelato rappresentano oggi una minoranza rispetto al panorama complessivo. Tuttavia, all'interno di quest'universo ci sono situazioni molto diverse. Certamente quella dei parasubordinati richiama la nostra attenzione perché, tra tutte le tipologie di lavoro precario, è quella contrattualmente, anche se non professionalmente, più debole. Legge 30, sgombriamo il campo da equivoci: il governo Berlusconi ha insistito molto su un provvedimento che avrebbe distinto, finalmente, il vero lavoro autonomo da quello dipendente mascherato. Niente di più falso. Il testo è costruito in modo da consentire la trasformazione di quasi tutte le collaborazioni coordinate e continuative in lavori a progetto. Progetti creativi... come, ad esempio, il cuoco macrobiotico. Dove la fantasia non è arrivata i committenti hanno costretto molti lavoratori ad aprire la partita IVA, a trasformarsi cioè in prestatori d'opera autonomi tout-court, ancora meno tutelati e senza contributi. Se guardiamo le ricerche degli ultimi anni sugli iscritti al fondo gestione separata (il fondo INPS in cui versano i contributi questi lavoratori), emerge un quadro multiforme di lavoratori e di lavoratrici in cui, però, sono rintracciabili aspetti comuni che ne fanno un vero e proprio gruppo sociale. Oltre i due terzi hanno tra i 30 e i 40 anni e sono laureati, la stragrande maggioranza svolge professioni tecniche o intellettuali di medio-alto profilo, coerenti con il proprio titolo di studio. Eppure, una quota significativa di questi lavoratori e lavoratrici, anche tra i trentenni, vive ancora con i genitori e la stragrande maggioranza non ha ancora figli. Significativo da questo punto di vista è che ben il 40% di loro conta su un unico committente, percentuale che raddoppia addirittura (oltre l'80%) se si considera che anche una buona parte dei pluricommittenti ha comunque un rapporto quasi esclusivo con un committente prevalente. Mancano diritti fondamentali e i contratti durano quanto vogliono i datori e non serve alcuna modifica dell'art. 18 per licenziare questi lavoratori senza giusta causa. Un approccio non superficiale o strumentalmente ideologico per costruire delle proposte e una iniziativa concreta devono necessariamente fare i conti con l'effettiva realtà dei fatti e con le condizioni di vita e di lavoro delle persone che operano con questi contratti. Dal nostro punto di vista sono necessari interventi capaci di agire su piani diversi. Alcuni attengono al piano legislativo. Una considerazione preliminare rispetto al datore di lavoro pubblico. La crescita delle collaborazioni nel pubblico impiego è stata determinata dal reiterato blocco delle assunzioni che ha costretto il datore di lavoro pubblico a ricorrere a questa forma contrattuale in luogo del lavoro dipendente. Per inciso, blocco delle assunzioni che è ribadito anche dalla finanziaria che si dibatte in questi giorni. Con l'aggravante che l'art. 97 della Costituzione non permette di far assumere, come invece avverrebbe nel privato, un lavoratore in collaborazione del quale si provasse in giudizio la subordinazione. La ricetta è articolata ma relativamente chiara: rispetto al pubblico assumere queste persone che da anni garantiscono la continuità dei servizi in condizioni disperate. Sottopagati e senza tutele... Ricostruire le carriere reali dei lavoratori e della loro professionalità indipendentemente dalla condizione contrattuale ai fini di un adeguato riconoscimento dei percorsi lavorativi in relazione ai concorsi pubblici. Individuare il lavoro subordinato a termine come unica o largamente prevalente forma di lavoro discontinuo disponibile per i datori di lavoro pubblici oltre che per quelli privati. Prevedere che negli appalti vi siano clausole di salvaguardia per i lavoratori: i contratti collettivi che si applicano sono quelli giusti e con gli inquadramenti corretti. La forma di lavoro è quella dipendente perché il massimo ribasso non può comportare che i risparmi presunti della pubblica amministrazione si scarichino sulla vita delle persone. Le esternalizzazioni servono se qualificano i servizi e non perché fanno risparmiare. Contestualmente, visto che non si tratterà di un processo breve estendere i diritti e le tutele ai lavoratori parasubordinati, a partire dalla contrattazione collettiva, come è indicato nella piattaforma condivisa da AIB e le categorie della CGIL firmatarie. Minimi salariali, diritti sociali formazione, diritti sindacali, valorizzazione della professionalità dei lavoratori parasubordinati. Rispetto alle problematiche più generali, quelle che interessano tutti i collaboratori, co.co.co. o a progetto, innanzitutto dobbiamo segnalare quella che può essere senza enfasi definita come una vera e propria emergenza previdenziale e assistenziale. Lavoratori praticamente esclusi dal welfare. Possiamo prevedere che stando agli attuali versamenti contributivi, chi lavora una vita come parasubordinato potrà aspirare a qualcosa in più della pensione sociale. Se invece passa ad un lavoro dipendente non potrà cumulare i contributi versati e rischierà di perderli. Se, com'è facilmente prevedibile (trattandosi di contratti prevalentemente a termine) non lavorerà per un certo periodo di tempo, non potrà usufruire di alcun sostegno al reddito, lo stesso se si ammalerà (tranne il caso di una malattia ospedalizzata). Quali le ragioni? Il fondo speciale INPS nasce con l'obiettivo dichiarato di dare una copertura previdenziale al lavoro semiautonomo, e con quello dissimulato di fare cassa per tappare i buchi della gestione ordinaria (quella del lavoro dipendente). Nei fatti avrà l'effetto di fare emergere una vasta area di lavoro prima sommerso. Si tratta di un fondo fortemente in attivo e che fino ad oggi eroga solo l'1% delle prestazioni. Non è solo un problema di versamenti bassi (poco più della metà di un lavoratore dipendente). I contributi infatti sono cresciuti progressivamente (dal 10% del 1995 a quasi il 19% del 2005 e al previsto 23% per il 2007), ma stante l'attuale media dei compensi dei collaboratori (12,500 euro lordi annui) nessuna manovra sull'aliquota è in grado di assicurare una pensione decente a questi lavoratori. Se non si interviene sulle retribuzioni stabilendo che non possano essere inferiori a quelle previste per un lavoratore dipendente che svolge analoghe mansioni il problema si riproporrà sempre. Ad oggi la prestazione più concreta erogata dall'INPS a questi lavoratori è l'indennità di maternità (ma considerando la discontinuità dei periodi di lavoro la maturazione non è agevole: sono necessari tre mesi di contributi effettivi nei dodici mesi prima del parto). La nuova finanziaria estende l'indennità di malattia e i congedi parentali. Qualcosa in più ma non basta, è comunque troppo alto il minimale contributivo su cui si basa la concessione di tale indennità. Bisogna costruire, perciò, un reale sistema di tutele sociali in grado di assicurare il pieno riconoscimento dei diritti di cittadinanza. Il problema del sostegno al reddito per i lavoratori che rappresentiamo è senza dubbio quello più scottante. Infatti, se per i lavoratori temporanei è previsto il trattamento di disoccupazione con requisiti ridotti, come per molti lavoratori discontinui, per collaboratori e prestatori d'opera non è previsto nessuno strumento di sostegno al reddito nei periodi di disoccupazione. Questa è una odiosa ingiustizia perché proprio questi lavoratori, più di altri, alternano periodi di lavoro e non lavoro. È necessario, quindi, armonizzare i trattamenti in tutte le forme di lavoro, ora differenziati, e configurare un trattamento comune per tutte le integrazioni al reddito in caso di perdita della precedente occupazione. Ciò comporta l'unificazione progressiva delle attuali indennità ordinarie e speciali di disoccupazione; creare da subito e preliminarmente forme di copertura per la continuità dei versamenti previdenziali; prevedere la possibilità di sospensione del pagamento del rateo mutui casa nei periodi di non lavoro ecc. La copertura finanziaria di tali misure deve essere garantita in parte attraverso la fiscalità generale e in parte attraverso forme di mutualità dei soggetti interessati. La copertura della contribuzione INAIL per tutti i lavoratori parasubordinati deve essere a totale carico del committente. Altro aspetto importante sono le politiche attive del lavoro e la formazione. Su questo punto, in particolare, il primo obiettivo è quello di rendere disponibili le risorse accantonate nel fondo gestione separata dell'INPS e destinate proprio alla formazione dei lavoratori parasubordinati. Nella società della conoscenza, infatti, il diritto all'istruzione e alla formazione è precondizione per l'esercizio della democrazia, per garantire la libertà e l'autonomia individuale nella scelta dei percorsi lavorativi. Possiamo affermare che la formazione permanente ha il valore di una moderna forma di assicurazione sociale, che può favorire l'identità sociale della persona. Sono quindi necessari interventi di sostegno economico, quale contributo alle spese di formazione da utilizzare in strutture pubbliche o accreditate. Un'offerta formativa individualizzata, con percorsi per unità capitalizzabili, per consentire il riconoscimento dei crediti formativi, la loro certificazione e la costruzione del libretto formativo personale. Per supportare una carriera che si snoda nel tempo in una molteplicità di lavori, è fondamentale la leggibilità delle competenze acquisite e il loro riconoscimento attraverso la certificazione che deve essere affidata a soggetti pubblici. I servizi territoriali per l'impiego e i centri regionali per l'educazione degli adulti potrebbero essere i luoghi dedicati all'attestazione e certificazione periodica delle competenze, conoscenze e abilità acquisite dal lavoratore. Così come, anche in una logica di sistema, il bilancio delle competenze può facilitare e rendere più efficace l'azione di orientamento verso successivi percorsi formativi. La certificazione, rilasciata al termine di ogni percorso formativo e/o di lavoro, insieme al bilancio delle competenze dovrebbe essere riconosciuta ai collaboratori con o senza partita IVA a fini dei concorsi nel settore pubblico e in quello privato per favorire forme di stabilizzazione del rapporto di lavoro e di maggiore occupabilità. I lavoratori non assunti a tempo indeterminato sono una realtà sempre più consolidata, però, nonostante il peso che vanno assumendo, non hanno accesso sia al credito al bancario, sia a quello al consumo. Infatti, se esiste una domanda di credito potenzialmente meritevole, ma non soddisfatta dagli intermediari legali, è possibile, che tale richiesta venga accolta da prestatori informali, o peggio ancora illegali. Il fatto è che le banche senza garanzie reali o personali non fanno credito (anche se devono aver cominciato a riflettere su come attrarre questi nuovi segmenti di clientela) e, ancora oggi, non hanno una strategia di riferimento. In sintesi per stringere una relazione positiva tra efficienza economica e flessibilità regolata, bisogna affermare un modello di flexsecurity che sappia coniugare sviluppo economico e diritto alle protezioni sociali dei lavoratori e lavoratrici flessibili. Come suggerisce la commissione Supiot, piuttosto che fare dei sistemi di protezione sociale un mezzo per riparare a posteriori i danni, bisogna trasformarli in modo tale che siano in grado di fornire risorse tali da permettere un buon livello di sicurezza attiva contro i rischi e le incertezze. Non è più rinviabile una nuova legislazione che effettivamente consenta di distinguere tra lavoro dipendente anche in senso economico e lavoro autonomo; che vada oltre la rappresentazione del lavoro figlia della fabbrica fordista ma che allo stesso tempo estenda lo stato sociale rendendolo realmente più inclusivo e promozionale anche con forme nuove di sostegno al reddito, alla formazione, alla tutela e promozione della professionalità. Alcuni diritti devono a mio avviso discendere dalla cittadinanza prima ancora che dal lavoro subordinato o autonomo che sia. Alcune considerazioni conclusive. Negli ultimi trent'anni si sono verificate trasformazioni poderose nel sistema produttivo che in molti casi hanno portato ad una esplosione della fabbrica fordista su cui si sono costruiti il diritto del lavoro e l'azione sindacale. Il problema della nuove forme di lavoro si pone anche oltre la follia italiana delle collaborazioni coordinate e continuative. Vive nel lavoro dipendente dove l'autonomia, da rivendicazione del sindacato è diventata un valore per l'impresa. Ma non è riconosciuta in termini di potere e di salario. Professionalità nuove ci sono e si fondano su competenze specifiche che faticano a trovare riconoscimento negli attuali sistemi di inquadramento. Anche il sindacato quindi è in grave ritardo. E certo una legge, per quanto come ho detto non rinviabile, non sarà sufficiente a permetterci di recuperare il tempo perduto. Come CGIL con l'esperinza di NidiL e oggi quella di categorie come la nostra, la FLC, che hanno assunto il superamento del precariato come priorità dell'azione sindacale attraverso l'allargamento degli spazi di rappresentanza e la contrattazione collettiva, abbiamo inaugurato una pratica che ha permesso di conquistare in alcuni casi anche diritti che la legge attualmente nega. Luogo di lavoro per luogo di lavoro. Diritti sociali e diritti sindacali. Ci sono tanti lavoratori che mettono a rischio il loro posto per fare i delegati da precari. Che lottano per conquistare un tavolo di trattativa come avveniva negli anni Cinquanta. Vediamo nascere una soggettività collettiva che smentisce la vulgata di un universo impossibile da ricomporre. Totalmente individualizzato. Ma l'iniziativa del sindacato deve essere ancora più forte e incisiva: uno sviluppo ulteriore della contrattazione collettiva in grado di coniugare autonomia nella prestazione, percorsi di crescita professionale e sicurezza sociale. |
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2007-11-26,
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