Venerdì 29 ottobre 2004
ore 10,00-13,00
Roma EUR, Palazzo dei congressi
Sala Campidoglio
1. Milano, Lombardia; Edina, Minnesota
Fra le tante cose che l’Italia è riuscita brillantemente a esportare in America (la pizza, la mafia) vi è anche l’idea dello "shopping mall". Pare infatti che la Galleria Vittorio Emanuele di Milano, progettata da Giuseppe Mengoni tra il 1865 e il 1877, sia stata il modello ispiratore del primo centro commerciale coperto, costruito a Edina, Minnesota, dall’architetto Victor Gruen nel 1956. Gruen, rifugiatosi negli Stati Uniti per sfuggire alla persecuzione nazifascista, era di origini europee, austriaco, dunque è probabile che conoscesse per esperienza diretta la Galleria di Milano: luogo di passaggio tra Piazza del Duomo e Piazza della Scala, luogo di ritrovo, di bar, di ristoranti, di negozi accomunati in un unico contesto strutturale volto a facilitare al massimo grado la fruizione dei diversi esercizi commerciali, garantendo la tranquillità di un’oasi pedonale perdipiù riparata dalle intemperie. Questo concetto base – favorire le migliori condizioni per una passeggiata che invogli all’acquisto – fu sviluppato da Gruen nella costruzione del suo "shopping mall" in Minnesota, uno Stato ove le precipitazioni (particolarmente quelle nevose) sono decisamente più fastidiose che nel capoluogo ambrosiano. La differenza più significativa che distingue l’archetipo dalla sua riproposizione statunitense sta nella loro collocazione urbanistica. I cento anni che separano le due strutture hanno significato il volgere di un’era nel mondo del trasporto: la capillare diffusione dell’automobile ha letteralmente ridisegnato la forma delle città, privilegiando la costruzione di infrastrutture utilizzabili – innanzi tutto - da automobilisti. Se dunque la collocazione della Galleria di Milano rappresentò, ai tempi, un intervento "dentro" la città, nel suo cuore pulsante, tra i palazzi del potere religioso, politico, finanziario e culturale, lo "shopping mall" di Edina venne edificato "fuori" dalla città, in un’area deserta che, proprio per questo motivo, poteva agevolmente essere corredata di parcheggi e vie d’accesso. La questione non fu di poco conto.
Infatti il modello di Gruen ebbe la ventura di rivelarsi decisamente funzionale al punto da essere ben presto imitato, fino ad oggi, in migliaia di altri luoghi, non solo negli Stati Uniti, ma anche all’estero, anche in quell’Italia da cui l’idea era originariamente partita. Lo "shopping mall" 1 non è la semplice evoluzione del supermercato 2, è un netto salto di qualità in quanto l’attività di spesa non viene svolta contestualmente ad altre attività in uno spazio urbano ove la gente, oltre a comprare, mette in atto tutte quelle altre attività che contraddistinguono la vita (nascere, crescere, studiare, divertirsi, innamorarsi, ammalarsi, morire eccetera), ma in un luogo "altro", raggiungibile solo con un viaggio in automobile "verso", per immergersi in uno spazio artificiale totalmente dedicato allo "shopping". Le conseguenze di enorme portata della straordinaria diffusione di questo forma di distribuzione commerciale sono l’oggetto di un volume scritto da William Severini Kowinski, The malling of America 3: si dà così ragione del titolo di questo intervento.
2. Perché il "mall" è un paradigma culturale
I motivi del successo degli "shopping mall" vanno letti contestualmente ad altri elementi caratteristici della moderna società dei consumi. Si è già detto dell’importanza da attribuire alla possibilità di utilizzare una vettura per spostarsi, anche per tragitti di lunghezza non indifferente, verso le cittadelle dello shopping. Altro elemento essenziale è la televisione. Come sottolinea Kowinski, "televison helped to create instant national demand, everywhere, all at once. So there had to be places to buy all this stuff, everywhere, all at once". 4
Ma il mezzo di trasporto e il mezzo di persuasione pubblicitaria non sono sufficienti a spiegare le ragioni che spingono ogni giorno milioni di persone a muoversi verso i centri commerciali. C’è di più. In particolare se è vero, come afferma Ralph Dahrendorf, che il potere di spesa è indice del grado di integrazione nel cittadino nel contesto sociale 5, è proprio nell’atto dell’acquisto che egli esercita pienamente i suoi diritti di cittadinanza. Da questo punto di vista i "mall" rappresentano un luogo di manifestazione del potere economico del singolo e, allo stesso tempo, di espressione di un’attività sociale che tende ad assumere le forme del rito, codificata nei tempi, nei modi e nell’organizzazione degli spazi.
Uno "shopping mall" è una struttura artificiale, pianificata e costruita con l’obiettivo del massimo profitto. Vengono perciò eliminate tutte le possibili cause di disturbo della spesa: le intemperie e le stagioni vengono chiuse fuori dalle porte a vetri, la sorveglianza interna vigila contro eventuali malintenzionati, ogni ostacolo fisico che si frappone tra il consumatore e il prodotto tende a essere abbattuto. Particolare cura viene dedicata al design dell’edificio che tende a parodiare architettonicamente un elemento del territorio (o, paradossalmente, uno del tutto esotico) eliminandone gli aspetti storico-materiali per mantenere ed esaltare unicamente quelli simbolici, in una sorta di elevazione per sottrazione; il tutto sterilizzato in un bagno di plastica, neon e aria condizionata. Si promuovono attività ludiche e spettacolari con scadenza periodica che fungano da ulteriori motivi di attrazione. Si cerca di offrire, in breve, un’esperienza simile ai pacchetti "all included" tipici dei villaggi turistici o dei parchi per divertimenti, anch’essi – non a caso – zone a socialità fortemente controllata: infatti parimenti ai "mall", anche i vari Disneyland e Gardaland sono ambienti "preplanned, enclosed, protected and controlled (and therefore might just as well be called "shopping malls for kids")". 6
Se dunque vogliamo provare a pensare la "mallificazione" non semplicemente come a un modo di fare shopping ma come a un paradigma culturale, i termini che dobbiamo tenere in considerazione sono i seguenti: quantificazione, artificialità, asetticità, standardizzazione, delocalizzazione. Come si può notare si tratta di caratteristiche comuni a tutti i "nonluoghi" che contraddistinguono la nostra esperienza di occidentali del XXI secolo. "Nonluoghi" che non sono tali perché non esistono, bensì perché negano qualsiasi tipo di rapporto identitario, relazionale o storico con il territorio su cui insistono: "il nonluogo è il contrario dell’utopia: esso esiste e non accoglie alcuna società organica". 7
Fra tutti i possibili nonluoghi il "mall" spicca – ci si passi il termine – per la "qualità" del suo essere altro rispetto al territorio su cui insiste. Ciò è dovuto a una caratteristica strutturale degli shopping center, ovvero la capacità di incorporare in un unico sistema una pluralità di funzioni che ne fanno una struttura omnicomprensiva 8. In un nonluogo si può mangiare (McDonalds, Pizza Hut), si può dormire (Marriott, Holiday Inn), ci si può divertire (Valtur, Warner Village), si possono fare acquisti (Carrefour, Auchan): in un "mall" tutte queste attività sono riunite e – fra loro – integrate secondo precise direttive, allo scopo di uniformarsi a una condotta di offerta comune volta a soddisfare tutte le esigenze del cliente. Non esistono "mall" senza luoghi di ristoro, sempre più frequenti sono quelli con servizi per il tempo libero (dai cinema alle palestre), più rari – perlomeno dalle nostre parti, perlomeno per ora – quelli che offrono la possibilità di assistere a una funzione religiosa, donare il sangue o prendere in prestito un libro dalla biblioteca, casi invece non infrequenti negli Stati Uniti. In questo senso il "mall" a differenza dei singoli nonluoghi specializzati nella soddisfazione di un’unica necessità, si presenta come un microcosmo attento a tradurre in profitto i bisogni – fisiologici o psicologici – di coloro che ne varcano la soglia, lasciandosi alle spalle le complessità e le difficoltà del mondo reale.
Luogo di incontro fra chi può spendere e chi aspira a spendere di più, il "mall" si rivela punto di aggregazione fra cittadini sempre meno partecipi a quelle attività comuni che contraddistinguono la propria appartenenza a una comunità, rurale o cittadina, al punto da assorbire progressivamente le medesime entro le proprie strutture. Gli spazi delle città vengono svuotati, le attività comuni vengono trasferite all’interno di questi parchi per gli acquisti in una dinamica urbanistica di centralizzazione dei margini 9 che periferizza i centri storici cittadini, ponendoli di fronte alla prospettiva spesso drammatica di ricercare un nuovo senso del loro essere.
3. "The malling of memory"
Si è detto dello spazio. E il tempo?
Le due categorie, come ci insegna Kant, non possono essere fra loro disgiunte, ed in effetti non lo sono. Pensiamo a due notissimi edifici italiani adibiti al culto: il duomo di Siracusa e la chiesa di Santa Maria sopra Minerva ad Assisi. In entrambi i casi si tratta di straordinari esempi di architettura religiosa in grado di essere interpretati anche dal turista più sprovveduto (e proprio in questa capacità comunicativa sta la loro eccezionalità) proprio come il geologo legge la successione stratigrafica della roccia nel fianco di una montagna. In entrambi i casi i templi pagani sono divenuti chiese cristiane, senza azzerare le strutture pre-esistenti, ma modificandole, integrandole nei nuovi piani progettuali. Sono esempi straordinari, certo. Ma un occhio appena più allenato in grado di osservare il paesaggio italiano non potrebbe che cogliere infinite sollecitazioni di questa continua accumulazione di testimonianze materiali che sono documenti di un tempo che è trascorso attraverso di esse, e che in esse si è sedimentato. E il riferimento all’Italia, naturalmente, non è accidentale: come ripetutamente sottolineato da Salvatore Settis, proprio in questa continuità tra spazi naturali e architettonici, tra opere d’arte mobili e immobili, in breve tra i materiali del tempo, sta la grandezza e la bellezza del nostro Paese. Ma un rischio ci minaccia, la mallificazione:
I theme parks, inventati per rendere visibile la storia là dove essa non aveva lasciato nessuna traccia (per esempio a Plymouth Plantation, Massachussets, dove è stato ricostruito dal nulla il Pilgrim Village dei primi colonizzatori, 1627) finiranno così con l’oscurare i giganteschi testimoni della storia che il nostro Paese conserva, accecando le nuove generazioni, confondendo il Colosseo con un fondale da cinema, togliendogli l’aura che ha avuto per duemila anni, proclamando l’equivalenza del falso con l’autentico? 10
Si badi: il rischio non consiste tanto nello svilire il Colosseo a livello di fondale da cinema, quanto piuttosto nel considerarlo slegato da quel contesto spazio-temporale nel quale ha vissuto fino ad oggi, atteggiamento che è l’inevitabile preludio alla commercializzazione del bene stesso. Infatti nel momento stesso in cui si viene a perdere quello che George Kubler chiama il "valore di posizione" 11 di un oggetto, il medesimo cessa di essere portatore di valori che non siano unicamente quelli economici, di sfruttamento. Per il Colosseo è già avvenuto in passato, quando le sue pietre furono riutilizzate come materiali di costruzione. Mutilato, comunque resistette fino al Settecento quando Benedetto XIV, consacrandolo – dunque "ricaricandolo" di significati – non lo preservò dallo sfacelo totale. Oggi il problema è non di smantellare il monumento (che va benissimo come fondale ad uso turistico) quanto piuttosto quello di sfruttare al massimo questo suo "appeal", da qui l’idea di poterlo vendere al miglior offerente, legiferando in tal senso. I rischi di questo atteggiamento verso i materiali del tempo sono evidenti, verrebbe da dire – insieme a George Steiner – "la memoria, ovviamente, è il perno della questione" 12. Se, comunque, le pietre asportate dal Colosseo servivano all’edificazione di nuovi monumenti, non si vede quale sia il quadro di riferimento culturale nel quale un atteggiamento di commercializzazione dello spazio e del tempo viene a iscriversi. Detto in altri termini, se è vero che "a partire dall’homo sapiens la costituzione di un apparato della memoria sociale domina tutti i problemi dell’evoluzione umana" 13, c’è da temere che si sia assistendo a un progressivo esaurimento di questa necessità di testimoniare la propria identità attraverso sistemi documentari che persistano nel tempo. Non è detto che si sia giunti al culmine di questa continua ricerca dell’orgasmo rappresentata dalla produzione e dal consumo di eventi, più che dalla volontà di indagare le trame che collegano il nostro essere di uomini contemporanei al tempo passato. La corsa è iniziata, verosimilmente, con la Rivoluzione Industriale, ed è entrata nel vivo durante il Novecento. Infatti, già Walter Benjamin denunciava la perdita di connessione reciproca tra gli avvenimenti raccontati sotto forma di notizie dalla stampa, annullando così la possibilità di colpire e modificare l’esperienza del lettore, per puntare unicamente allo shock sensoriale 14; quanto il mondo della comunicazione si sia specializzato in questo senso è sotto gli occhi di tutti. Il punto è, come ci ha insegnato McLuhan, che gli strumenti del comunicare non sono "altro" da noi, sono bensì nostre appendici: modificando la forma e l’uso che facciamo di essi, inevitabilmente modifichiamo noi stessi. Solo partendo dallo studio dei sistemi di organizzazione e trasmissione del pensiero umano potremo comprendere come si stia giungendo alla mallificazione della memoria; evitiamo di confondere come ha fatto Kundera, la causa con l’effetto:
La nostra epoca è ossessionata dal desiderio di dimenticare, ed è per realizzare tale desiderio che si abbandona al demone della velocità; se accellera il passo è perché vuol farci capire che ormai non aspira più a essere ricordata; che è stanca di se stessa, disgustata di se stessa; che vuol spegnere la tremula fiammella della memoria 15.
Al contrario, è grazie alla possibilità di avere a disposizione una tecnologia che consente rapide transazioni a mettere in pericolo il valore della memoria, più di quanto – al medesimo fine – non operi una deliberata volontà di oblìo da parte di un qualche imperatore Shih Huang Ti 16.
Il rischio odierno, peraltro, non consiste in un nuovo rogo di libri: questo sì sarebbe un evento, come lo fu l’abbattimento delle statue di Buddha sulla via della seta ad opera dei Talebani: si creerebbe un movimento d’opinione, si indignerebbero contro quei fanatici iconoclasti anche i gitanti che si premurano poi di lasciare – dopo il loro passaggio domenicale – parchi e monumenti di casa nostra in situazioni invereconde. No, il problema è un altro: è la perdita del senso della memoria, non dell’oggetto. Quest’ultimo – sradicato dal suo contesto – può essere impacchettato, riprodotto, venduto, ovvero comunicato: "Si potrebbe perciò affermare che anche nella comunicazione c’è un segreto: esso consiste nel rendersi invisibili per eccesso di esposizione" 17.
4. Malling e documento elettronico in biblioteca
La sterminata produzione di documenti digitali, caratteristica dell’età contemporanea, e la loro pubblicazione per mezzo della Rete presentano dunque analogie profonde con la trasformazione della grande distribuzione rappresentata dal fenomeno degli "shopping mall". Per Bill Gates l’identità tra i due sistemi è perfetta:
Una metafora differente [rispetto alle autostrade dell’informazione, nda], a mio parere più efficace nel descrivere le molte attività che sarà possibile svolgere sulla rete, è quella del mercato. I mercati – dalla borsa al centro commerciale – rappresentano una struttura fondamentale della società e credo che questo nuovo mercato sarà il magazzino più grande del mondo. Lì noi, animali sociali, venderemo, scambieremo, investiremo, contratteremo il prezzo, sceglieremo la merce, discuteremo, incontreremo gente nuova, passeremo il tempo 18.
Indipendentemente dall’essere d’accordo o meno sull’idea di commercializzazione relativa ad ogni attività umana condotta "in" e "attraverso" la Rete, ciò che sembra importante sottolineare è come la logica di Internet tenda a modificare la percezione delle categorie spazio-temporali alla stessa stregua del sistema interplanetario di scambio delle merci. Non si tratta certo di una casualità: i due fenomeni non sono tra loro disgiunti e, anzi, il loro straordinario sviluppo degli anni recenti è dovuto a una serie di reciproche influenze dell’uno sull’altro. La biblioteconomia non è stata a guardare questo mondo che cambiava a ritmo forsennato: ha tentato, con la sua teoria e la sua prassi, di tutelare la memoria di questi nuovi tempi interrogandosi, spesso aspramente, talora con risposte contraddittorie, sulle sue metodologie e sui suoi fini. E ancora oggi, nel pieno della rivoluzione, rimangono sul tavolo interrogativi strategici relativi non ad aspetti marginali, ma alle fondamenta del lavoro in biblioteca. Questi interrogativi – a nostro avviso – originano in massima parte da un fortissimo attrito venutosi a creare tra i pilastri storici della teoria biblioteconomica da un lato e le caratteristiche della documentazione elettronica dall’altro. Infatti le tre attività essenziali che costituiscono il servizio bibliotecario sono:
la consultazione (utilizzazione presente a fini scientifici e culturali), la conservazione (utilizzazione futura a fini scientifici e culturali), la consumazione (utilizzazione a fini educativi e ricreativi) 19.
Aver mantenuto questi capisaldi nel momento in cui la natura dei materiali ai quali si applicavano mutava profondamente, è la ragione della crisi della biblioteconomia contemporanea. La ricerca di nuovi strumenti di mediazione informativa (consultazione), la necessità della preservazione a lungo termine dei documenti (conservazione), le problematiche poste dalle nuove esigenze di educazione tanto dell’utenza come dei bibliotecari (consumazione), hanno monopolizzato dibattiti e convegni e riempito la stragrande maggioranza delle pagine delle riviste professionali da vent’anni in qua. E non poteva essere altrimenti perché delle due, o si discute e si ricercano soluzioni mantenendo ben chiari i fini dell’istituto bibliotecario, oppure – non ritenendoli più essenziali – ci si può preparare alla loro dismissione nella prospettiva di dedicarsi ad altre attività, senza l’obbligo di dover far rientrare le medesime sotto l’egida della biblioteconomia. Le biblioteche non sono essenziali alla vita dell’uomo: sono istituzioni sociali, storicamente inserite in un segmento preciso nella storia della comunicazione umana, di conseguenza potrebbero non essere considerate utili alla società di domani e, di conseguenza, eliminate. O semplicemente ignorate. Che interesse potrebbe avere l’homo interneticus, esponente di una società basata sull’"istantculture with a flavour for immediate, sensual pleasure" 20, verso una raccolta organizzata di documenti prospetticamente proiettata nel futuro con il suo anelito intrinseco alla tutela della memoria?
Ma finché la parola "biblioteca" avrà un senso bisognerà che essa difenda strenuamente la sua fondamentale prerogativa di testimonianza delle diversità: spaziali e temporali, in una parola culturali, come del resto ci ricorda – a chiare lettere – il Manifesto UNESCO sulle biblioteche pubbliche.
Per questo motivo, venendo al tema del dibattito, ovvero alle questioni relative a come affrontare un processo di selezione e valutazione delle risorse Internet in ambito bibliotecario, siamo fortemente convinti che, innanzitutto, saranno da definire come essenziali quei criteri e quelle procedure in grado di preservare il valore della memoria veicolata dai documenti. Non sappiamo come questa affermazione possa essere declinata nella pratica, ma sappiamo su quale elemento del sistema bibliotecario bisogna porre in primis l’attenzione.
Lo scorso otto ottobre, la "Guglielmo Marconi International Fellowship Foundation" ha conferito il "Premio Marconi" a Sergey Brin e Larry Page – gli inventori di Google – per "avere rivoluzionato il modo di reperire informazioni tramite Internet, offrendo alla comunità globale dei navigatori della Rete una consultazione veloce e ordinata dell’enorme quantità di dati presenti nel world wide web" 21. Sulla velocità, nulla da ridire. Ma sull’idea di "consultazione ordinata", forse val la pena di spendere qualche considerazione. È noto infatti che il criterio con il quale Google ordina i risultati di una query tiene in somma considerazione il numero di link che puntano a una risorsa piuttosto che a un’altra: in una parola l’effetto vincente è dato dall’audience: una logica tipicamente generalista, dove "popolarità" diventa sinonimo di "qualità". Con questa strategia Google è divenuto strumento alla portata di tutti in grado di soddisfare chiunque, non solo il navigatore medio, ma anche l’utenza accademica 22. Giustamente, come ha sottolineato di recente Riccardo Ridi, non si tratta di contrapporre le finalità di un sistema a quelle di un altro 23. Ma d’altro canto è innegabile che da qualche anno le biblioteche valutano e selezionano, tra gli altri, anche i medesimi materiali trattati da Google. Questi materiali – ovvero i documenti presenti in Internet – non possono usufruire di un sistema significativo di reciproca interrelazione. Gli strumenti che ne facilitano il recupero, nella fattispecie i motori di ricerca, si basano su criteri semantici del tutto approssimativi e la parte del leone è ancora giocata da una rilevanza quantitativa, sia che si tratti del numero di ricorrenze del termine ricercato all’interno del documento, sia che si tratti del numero di link che puntano al documento stesso. Sarebbe opportuno tenere sempre presente che i motori di ricerca sono essenzialmente dei database operanti in modo del tutto meccanico:
One may find "everything" in a database, but what kind of thing it is, why it is significant, or why it is simply nonsense are questions that cannot be answered by the database. In short, databases are not memory methods but are meant for forgetting. The "everything" you can find there is the "everything" you can forget 24.
In questo contesto il valore aggiunto di una biblioteca consiste proprio nella sofisticata infrastruttura in grado di correlare i documenti fra loro: questa infrastruttura è, ovviamente, il catalogo. Già da più parti si è sottolineato come sia necessario strutturare diversi livelli di descrizione catalografica per fare fronte al controllo bibliografico nell’ambito delle nostre biblioteche contemporanee che sono, e resteranno, ibride 25. D’altra parte si tratta di un discorso, quello della diversificazione degli approcci al controllo bibliografico, che ha radici lontane nel tempo 26. In questa sede, pur riconoscendo la necessità dell’uso di metadati come strumenti di straordinaria importanza per l’utilizzo efficace delle risorse di rete, si vuole focalizzare l’attenzione sul catalogo non tanto come strumento di mediazione informativa per la necessità del ricercatore contemporaneo, quanto come mezzo di preservazione della dimensione diacronica della documentazione. In questo senso il catalogo è davvero l’ultimo scoglio al quale possiamo aggrapparci contro un pervasivo e imperante senso del continuo presente. Scrive Serrai:
Dal momento che la duplice realtà del tempo rende i messaggi dei documenti sia lontani che attuali, le evidenze bibliografiche dovranno rispettare due condizioni antagonistiche: da un lato rispettare la originalità storica, dall’altro favorirne la percezione e l’assimilazione contemporanea. Per imbrigliare il dilemma ermeneutico prodotto dal tempo sarà necessario allestire dei sistemi concettuali che siano dotati di una potenza ideologica capace di dare albergo alle due suddette esigenze, quella che scaturisce dagli interessi presenti e quella che inerisce alle condizioni della genesi 27.
Con la perdita della dimensione fisica della documentazione elettronica abbiamo già ridotto la nostra capacità di raffrontarci verso il passato e verso il futuro 28. Ridotto ma non azzerato, perché persiste un’ingente produzione di documentazione analogica che le biblioteche, fortunatamente, continuano a trattare. Il catalogo, come punto di connessione tra risorse analogiche e risorse digitali, può fornire a quest’ultime quella contestualizzazione semantica, e dunque temporale, che esse, nella loro intrinseca natura, non hanno: "i nuovi media elettronici, così come non possono che esaltare la paratassi mortificando l’ipotassi, sottraggono all’attività argomentativa il suo naturale habitat: il tempo" 29. Assume dunque un valore portante, per ogni biblioteca, la scelta di un adeguato sistema di classificazione perché in esso, più che da altre parti, il tempo si avviluppa, connotandolo storicamente. Proprio sul rapporto tra classificazioni e conoscenza nel mondo contemporaneo si è aperto qualche tempo fa un breve dibattito 30 nella comunità biblioteconomica italiana, il cui abbrivio è dovuto all’intervento di Michele Santoro nell’edizione 2002 del Convegno delle Stelline.
Da un lato ci pare senz’altro condivisibile l’idea che la classificazione debba rifuggire dalle evidenti limitatezze degli schemi utilizzati dalle directory 31(schemi che prevedono sì un intervento umano, ma che non vanno nella stragrande maggioranza dei casi al di là di una mera suddivisione per categorie paragonabile a una ripartizione dei volumi sugli scaffali di una libreria) eppure dall’altro non siamo convinti dell’opportunità di guardare a schemi di classificazione duttili, articolati, metamorfici. Di fronte allo scenario delineato da Neil Postman,
l’ambiente in cui prospera il tecnopolio è un ambiente in cui si è spezzato il legame tra informazione e finalità umana: l’informazione è totalmente indiscriminata, non è diretta ad alcuno in particolare, è quanto mai voluminosa e veloce e non ha alcun rapporto con qualsiasi teoria, significato od obiettivo 32,
la scelta di una classificazione flessibile equivarrebbe a gettare benzina sul fuoco. La frammentazione semantica, tipica del mondo della documentazione elettronica, subirebbe un ulteriore processo di catalizzazione nella direzione di un infinito mondo di infinite possibilità che porterebbe in breve il sistema di mediazione catalografica alla totale entropia. Certo: una classificazione spinta al massimo grado di flessibilità si porrebbe come specchio lucidissimo per riflettere la realtà attuale della documentazione in Rete: caos contro caos. Ma i nostri cataloghi, ripetiamolo, si occupano ancora di atomi e non solo di bit, la sequenzialità storica, tipica del mondo tipografico, non ha raggiunto il suo traguardo e dunque, come è stato giustamente osservato 33, l’auspicio è piuttosto quello di strutturare sistemi di interconnessione tra classificazioni differenti, non di limare la loro reciproca diversità e tanto meno senza avere la pretesa di definire un sistema per eccellenza, che alcuni vorrebbero creare distogliendo l’attenzione "dall’uomo e dalle sue capacità per rivolgerla alla natura e alle cose in sé" 34, dando prova di uno spirito neopositivistico, oggi peraltro molto in voga, ma non per questo meno sconcertante. Proprio per l’importanza dell’applicazione dei sistemi di classificazione, dovremmo davvero preoccuparci di fronte a quella che Revelli ha definito come "la mattanza dei catalogatori" 35.
C’è, inoltre, un altro aspetto importante che un’organizzazione catalografica è in grado di preservare, vale a dire il senso di una memoria collettiva, anzi di più memorie, che trascendono la pratica individuale del ricordo. Questa giustapposizione di voci e di opinioni, che in un catalogo, dunque in un medesimo luogo si possono ritrovare, sposta il baricentro dell’attenzione dalla memoria alla storia 36, senza pretesa di esaustività o di imparzialità (il bibliotecario "puro", strenuo difensore del "politically correct" a tutti i costi, sta solo nei libri di Gorman) ma con la convinzione che si cresce nella diversità, anche estrema, delle opinioni. Per questo, come scrive Solimine, "anche in futuro la ‘funzione bibliotecaria’ non potrà fare a meno della prospettiva storica" 37, per questo se le biblioteche abdicheranno di fronte alle proprie prerogative catalografiche per allestire, come unica soluzione, degli elenchi di siti selezionati, degli strumenti di reference, compiranno un passo verso il loro declino o meglio, verso la loro trasformazione in un qualcosa che non credo si potrà definire domani sempre con il termine "biblioteca".
È una prospettiva lontana? Del tutto utopica?
Certamente una società con un senso della propria memoria in caduta libera farà felici gli strenui difensori della postmodernità, nonché gli epigoni di Nietsche:
La memoria è un elemento essenziale di ciò che ormai si usa chiamare l’"identità", individuale o collettiva, la ricerca della quale è una delle attività fondamentali degli individui e delle società d’oggi, nella febbre e nell’angoscia 38.
Lo spazio lasciato vuoto da questo "impacchettamento" della memoria ad uso commerciale sarà presto lottizzato. Gnosticismo, messianismo, revisionismo, populismo sono già oggi ben più che semplici sintomi di un mondo che cambia.
Non resta che chiederci se davvero, come afferma colui che un tempo fu poeta e che oggi è un vecchio rimbambito nel parcheggio di uno "shopping mall":
Note
1 Il termine “mall” è probabilmente un'abbreviazione di “pall-mall”, il luogo ove nei secoli XVI e XVII si tenevano le competizioni di “pallamaglio”. Il gioco, antenato del croquet, necessitava di un'ampia area verde a disposizione dei praticanti. Oggi il termine indica, più generalmente, “a large enclosed shopping area from which traffic is excluded”, cfr. “mall n.”, The Concise Oxford English Dictionary, ed. Catherine Soanes and Angus Stevenson, Oxford, Oxford University Press, 2004, http://www.oxfordreference.com/views/ENTRY.html?subview=Main&entry=t23.e33753. Sulla storia dei “mall”, si veda: Steve Schoenherr, Evolution of the shopping center, 2004, http://history.sandiego.edu/gen/soc/shoppingcenter.html. Vale la pena rammentare che Walter Benjamin lasciò un'opera incompiuta dedicata alle architetture coperte delle metropoli ottocentesche come antesignane del moderno approccio allo shopping, e dunque, ai “mall”. L'opera, ispirata dal “Passage des Panoramas” di Parigi è intitolata Das Passagenwerk (tr. it. I passages di Parigi, Torino, Einaudi, 2002). Cfr. Christopher Rollason, The passageways of Paris: Walter Benjamin's Arcades Project and contemporary cultural debate in the West, revised version of a text first given by the author as a lecture in India in February 2002, at Kakatiya University, Warangal (Andhra Pradesh) and the Central Institute of English and Foreign Languages (CIEFL), Hyderabad, and subsequently published under the present title in Modern Criticism, ed. Christopher Rollason and Rajeshwar Mittapalli, New Delhi, Atlantic Publishers and Distributors, 2002, 262-296, http://www.wbenjamin.org/passageways.html.
2 Anche il supermercato è un'idea statunitense realizzata in pratica, per la prima volta, nel 1916 da Clarence Saunders, un droghiere di Memphis, cfr. James R. Beniger, Le origini della società dell'informazione. La rivoluzione del controllo, Torino, Utet Libreria – Telecomitalia, 1995 (ed. or. 1986), pp. 378-385.
3 William Severini Kowinski, The malling of America. Travels in the United States of Shopping, Philadelphia, Xlibris, 2002 (ed. or. 1985).
4 Ivi, p. 80.
5 Cfr. Ralph Dahrendorf, Per un nuovo liberalismo, Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 135-147; si veda anche Giorgio Triani, Dalla casa al supermercato e viceversa. Luoghi e percorsi del consumo, in Casa e supermercato. Luoghi e comportamenti del consumo, a cura di G. Triani, Milano, Elèuthera, 1996, pp. 13-25: 21.
6 W. S. Kowinski, op. cit., p. 97. Sullo stretto rapporto tra parchi tematici e centri commerciali e, più in generale, sulla "mallificazione" della città contemporanea si veda anche Benjamin R. Barber, Guerra santa contro McMondo, Milano, Marco Tropea, 2002 (ed. or. 1995), pp. 112-122.
7 Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 1993, p. 101.
8 “Where it all comes together”, come afferma esplicitamente il motto del “Southdale's Mall”, quello progettato da Victor Gruen, l'archetipo di tutti quelli venuti dopo: http://www.southdale.com/. Riguardo ai “mall” come attrattori spazio-temporali, si leggano le acute considerazioni di Stefano Boeri, Luoghi in sequenza, in Paesaggi ibridi. Highway, multiplicity, a cura di Mirko Zardini, Ginevra-Milano, Skira, 1999, pp. 59-69.
9 Cfr. Andrea Colombo, Laboratori dell'innovazione: i ghetti urbani, in La città senza luoghi. Individuo, conflitto, consumo nella metropoli, a cura di Massimo Ilardi, Genova, Costa & Nolan, 1997, pp. 122-142.
10 Salvatore Settis, Italia S.p.a. L'assalto al patrimonio culturale, Torino, Einaudi, 2002, p. 100.
11 George Kubler, La forma del tempo. La storia dell'arte e la storia delle cose, Torino, Einaudi, 2002 (ed. or. 1972), pp. 116-118.
12 George Steiner, Una lettura ben fatta, in Id, Nessuna passione spenta, Milano, Garzanti, 2001 (ed. or. 1996), p. 21.
13 André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, Torino, Einaudi, 1977 (ed. or. 1965), p. 270.
14 Walter Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Id, Angelus novus, Torino, Einaudi, 1989, pp. 92-93 (ed. or. 1955). Più in generale, sull'argomento, si veda anche David Harvey, La crisi della modernità, Milano, Il Saggiatore, 1997 (ed. or. 1990), pp. 347-374.
15 Milan Kundera, La lentezza, Milano, Adelphi, 1999, p. 137.
16 Cfr. Jorge Luis Borges, La muralla y los libros, in id, Otras inquisiciones. Quanto conti avere un'arma in mano per passare dal delitto in potenza alla perpetrazione del crimine è stato – del resto – ben descritto in Bowling for Columbine, regia di Michael Moore. Produzione: USA, 2002.
17 Mario Perniola, Contro la comunicazione, Torino, Einaudi, 2004, p. 13. Si leggano anche, relativamente alla fragile memoria di cui è portatrice la documentazione in formato elettronico, le considerazioni di Stefano Vitali, Passato digitale. Le fonti dello storico nell'era del computer, Milano, Bruno Mondadori, 2004, capp. 12 e 13.
18 Bill Gates, La strada che porta a domani, Milano, Mondadori, 1995, p. 13.
19 Alfredo Serrai, Guida alla biblioteconomia, Firenze, Sansoni, 1983, p. 17.
20 Frank Hellemans, Napoleon and Internet. A historical and anthropological view on the culture of punctuality and instantaneity, "Telematics and Informatics", 15 (1998), pp. 127-133: 132. L'espressione homo interneticus è stata coniata da Michael H. Goldhaber, The mentality of homo interneticus: some Ongian postulates, " First Monday ", 9, 6 (Jume 2004), http://www.firstmonday.org/issues/issue9_6/goldhaber/index.htm.
21 Così recitava la motivazione del premio secondo quanto riportato dal " Corriere della Sera " del 9/10/2004, p. 26.
22 cfr. Deanna B. Marcum - Gerald George, Who uses what? Report on a national survey of information users in colleges and universities, "D-lib magazine", 9, 10 (October 2003), http://www.dlib.org/dlib/october03/george/10george.html. Nello studio, condotto in oltre trecento università statunitensi, è emerso che oltre il 47% del corpo docente utilizza i motori di ricerca per recuperare le fonti di informazione desiderate. “Motori di ricerca” è, evidentemente, una locuzione politicamente corretta per evitare di fare il nome della kill-app.
23 Riccardo Ridi, Biblioteche vs Google? Una falsa contrapposizione, "Biblioteche oggi", 22, 6 (luglio-agosto 2004), pp. 3-5; disponibile anche online: http://www.bibliotecheoggi.it/2004/20040600301.pdf.
24 Uwe Jochum, The gnosis of media, "The library quarterly", 74, 1 (January 2004), pp. 21-41: 38.
25 Cfr. Michael Gorman, Metadati o catalogazione, "Biblioteche oggi", 19, 5 (giugno 2001), pp. 8-18; disponibile anche online: http://www.bibliotecheoggi.it/2001/20010500801.pdf; si vedano anche due degli interventi presentati al convegno La biblioteca ibrida: verso un servizio informativo integrato, a cura di Ornella Foglieni, atti del Convegno tenuto a Milano, 14-15 marzo 2002, vale a dire Mauro Guerrini, Il catalogo della biblioteca ibrida: una rivoluzione copernicana, pp. 88-102, e Paul Gabriele Weston, Dal controllo bibliografico alle reti documentarie, in La biblioteca ibrida… cit., pp. 129-151.
26 Cfr. Luigi Balsamo, Funzione e utilizzazioni del censimento dei beni librari, "Biblioteche oggi ", 7, 1 (gennaio-febbraio 1989), pp. 31-40.
27 Alferdo Serrai, Tempo e documenti, in Id, Il cimento della bibliografia, Milano, Sylvestre Bonnard, 2001, pp. 39-42: 42.
2828 cfr. M. H. Goldhaber, art. cit.
29 Lorenzo De Carli, Internet. Memoria e oblio, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, p. 27.
30 Si vedano i contributi di Claudio Gnoli, Michele Santoro e Giulia Visintin in "iblioteche oggi ", 21, 1 (gennaio-febbraio 2003), pp. 17-30.
31 “[…] appare evidente l'empirismo e l'approssimazione che pervadono queste nuove ripartizioni, troppo legate alle manifestazioni più superficiali dell'universo Internet per poter rappresentare a pieno la ricchezza e la molteplicità dei fenomeni conoscitivi che in esso hanno luogo”, Michele Santoro, La disarmonia prestabilita: per un approccio ibrido alla conoscenza e ai suoi supporti, in La biblioteca ibrida… cit, pp. 59-78: 72-73.
32 Neil Postman, Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia, Torino, Bollati Boringhieri, 2003 (prima ed. 1992), p. 68.
33 Antonella De Robbio - Dario Maguolo, Interconnessioni tra classificazioni scientifiche e classificazioni generali nel mondo digitale, " Bibliotime ", 4, 2 (luglio 2001), http://www.spbo.unibo.it/bibliotime/num-iv-2/derobbio.htm.
34 Ingetraut Dahlberg, Ontical structures and universal classification, Bangalore, Sarada Ranganathan endowment for library science, 1978, p. 28, citato in Claudio Gnoli, Mezzo o messaggio. Le classificazioni all'inseguimento delle conoscenze in evoluzione, " Biblioteche oggi ", 21, 1 (gennaio-febbraio 2003), pp. 17-19: 18.
35 Carlo Revelli, La mattanza dei catalogatori, " Biblioteche oggi ", 22, 5 (giugno 2004), pp. 7-15; disponibile anche online: http://www.bibliotecheoggi.it/2004/20040500701.pdf. La preoccupazione per il ruolo sempre più subordinato che la catalogazione riveste nei corsi di biblioteconomia negli USA, è espressa da Michael Gorman, Whither library education?, " New library world ", 105, 1204/1205 (2004), pp. 376-380.
36 Cfr. Charles S. Maier, Un eccesso di memoria? Riflessioni sulla storia, la malinconia e la negazione, " Parolechiave ", 9 (dicembre 1995), pp. 29-43.
37 Giovanni Solimine, La biblioteca. Scenari, culture, pratiche di servizio, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 224.
38 Jacques Le Goff, Storia e memoria, Torino, Einaudi, 1982, pp. 397-398.