AIB. Commissione nazionale biblioteche e servizi nazionali | |
Venerdì 29 ottobre 2004
ore 12,30-13,30
Roma EUR, Palazzo dei congressi
Sala palatino
Nel frattempo i Principi del 1979 erano stati ampliati e pubblicati in una nuova edizione nel 1986, come «Professional Report» n. 8, con il titolo Principles for the preservation and conservation of library materials. Dal 1994, nell’ambito del programma “Preservation and Conservation” (PAC), l’IFLA aveva avviato un’indagine ad ampio raggio, tra bibliotecari, responsabili delle maggiori biblioteche nazionali e organizzazioni internazionali di settore, sulle modalità e gli strumenti della conservazione. I risultati della ricerca furono elaborati da Edward P. Adcock della Bodleian Library di Oxford con la collaborazione di Marie Thérèse Varlamoff della Bibliothèque de France e di Virginie Kremp, funzionario dell’IFLA e pubblicati nel 1998 come numero uno delle “International Preservation Issues”.
Che cosa cambia, nei contenuti e nell’impostazione, dai Principi del 1979 a quelli del 1998? Già dal titolo si rileva un mutamento radicale nell’approccio al problema: dai Principles of conservation and restoration in libraries si passa ai Principles for the care and handling of library material, attraverso un piano inestricabilmente intrecciato con l’esperienza quotidiana. I Principi del 1998 sono ispirati alla cura e al trattamento dei materiali di biblioteca: cura e manipolazione, come insieme di operazioni di natura prevalentemente manuale o comunque attinenti all’ordine fisico delle cose.
Ma il mutamento di approccio al tema è ancora più esplicito nei contenuti. Anzitutto un notevole ampliamento nell’estensione del testo: il numero delle pagine, dal 1979 al 1998, si decuplica. L’organizzazione della trattazione è più articolata, si affrontano in modo organico non solo le problematiche dei materiali tradizionali, ma anche quelle dei nuovi supporti dell’informazione: dalle fotografie, agli audiovisivi analogici, ai dischi ottici. Ogni registrazione di informazioni viene considerata meritevole di attenzioni e di cautele ai fini della conservazione.
I Principi del 1979 si proponevano di creare un atteggiamento responsabile verso i problemi della conservazione e del restauro nelle biblioteche. Ne era destinatario il bibliotecario responsabile del compito, definito “particolarissimo”, della comprensione dei problemi della conservazione e del restauro, che doveva acquisire conoscenza e sensibilità per le basi scientifiche, le tecniche e i materiali coinvolti negli interventi conservativi, oltre che per l’origine e la storia dei documenti delle collezioni. Poco dopo si affermava che la scelta dei materiali per il trattamento conservativo e di restauro deve essere basata su una valutazione di alto livello scientifico fatta da esperti. Scopo della formulazione dei Principi era di stimolare i responsabili a formulare, insieme con gli esperti, una politica concreta per il futuro delle raccolte.
È così frequente, nei Principi del 1979, il richiamo alla necessità del ricorso al parere di “specialisti del settore” (di volta in volta il microbiologo, il micologo, l’entomologo, il chimico, il restauratore) che sembra - estremizzando un po’ - che il bibliotecario conservatore dia il meglio di sé riconoscendo le situazioni nelle quali è necessario ricorrere alla consulenza dello specialista del settore, attenuando quindi la propria presenza sulla scena della crisi per cedere il passo all’esperto, sostanzialmente delegato alla gestione degli eventi perturbanti. Con un tocco di esasperazione giornalistica si potrebbe dire che il buon bibliotecario conservatore è il bibliotecario delegante.
I Principi del 1998, invece, procedono dalla considerazione che i temi della conservazione e del restauro hanno ormai acquistato un ruolo specifico, di buon livello, nella professione bibliotecaria, mentre ci sono ancora molte biblioteche nel mondo che hanno bisogno di una guida per occuparsi delle proprie raccolte. Si sposta quindi il target di questi ultimi Principi: i fruitori potenziali sono individuati in quelle realtà, istituzioni pubbliche o private, dotate di una conoscenza scarsa o nulla in materia di conservazione, alle quali si vuole fornire una introduzione di tipo generale alla cura e al trattamento dei materiali di biblioteca, non una precettistica di dettaglio, ma informazioni di base che aiutino le biblioteche a formare un’attitudine ad occuparsi responsabilmente delle proprie raccolte. Si intende argomentare per stimolare flussi di comunicazione chiara tra direttore di biblioteca, ufficio tecnico, specialisti della tutela delle raccolte e personale di biblioteca, affinché tutti gli interessati operino nella direzione della conservazione del patrimonio della biblioteca. La conservazione è quindi una funzione dell’organismo biblioteca, “definita dalla concorrenza di tutte le considerazioni gestionali, amministrative, finanziarie e di personale necessarie alla tutela delle raccolte”, che specificamente si traduce nella “predisposizione di un appropriato livello di sicurezza, di controllo ambientale, di gestione dei depositi, di cura e di trattamento, che servirà a rallentare nel tempo il deterioramento chimico e biologico e a proteggere il materiale librario da danni fisici”.
Tutto il documento dell’IFLA del 1998 è percorso dalla consapevolezza che conservazione è politica della conservazione: è anzitutto conoscenza (premessa indispensabile ad una scelta per il futuro), è gestione di risorse finanziarie, è cooperazione. Conservare è scegliere di conservare, dai prestigiosi progetti di cooperazione internazionale (ricordiamo come la prima sessione della “Conferenza internazionale su conservazione e restauro di materiali archivistici e librari” di Erice del 1996 fosse dedicata al tema della cooperazione internazionale) al coordinamento di azioni mirate all’interno dei singoli istituti.
Altra grossa novità dei Principi del 1998 è la deliberata esclusione dalla trattazione del restauro. Se nel 1979 si affermava, fornendo parametri di riferimento in proposito, “Non si deve restaurare a meno che non sia inevitabile”, nel 1998 il restauro viene di proposito escluso perché il documento proposto “si concentra unicamente sulle misure che la maggior parte delle biblioteche può prendere per prevenire e rallentare il deterioramento delle proprie raccolte”.
I Principi del 1998 propongono un approccio alla conservazione di tipo olistico, tenendo ovviamente conto che delle scelte di priorità devono essere sviluppate a monte, nella definizione delle politiche di accrescimento delle raccolte e nell’individuazione degli ambiti di conservazione entro cui una biblioteca intende operare. Da un punto di vista epistemologico per concezione olistica si intende quella secondo cui il senso di una proposizione scientifica, sia teorica che descrittiva di una osservazione sperimentale, dipende da un sistema concettuale complesso, da una o più teorie, o addirittura dalla scienza nel suo complesso. Volendo riportare la nozione di olismo al nostro contesto, si intende esprimere la tesi dell’esistenza di un “tutto” non riducibile alla somma dei componenti inferiori. La biblioteca deve essere vista e considerata, ai fini della conservazione, in quanto totalità organizzata e non come somma di parti discrete. Non esistono materiali da privilegiare a priori né parametri di conservazione assoluti e statici; ogni scelta di conservazione va presa e attuata consapevolmente nell’ambito delle politiche che la biblioteca intende attuare.
I Principi sottendono una concezione della conservazione strettamente legata alla fruizione, indicando nella cura attenta, nel rispetto delle specificità dei materiali e nelle scelte oculate di riproduzione la possibilità di superare la contrapposizione sempre incombente tra fruizione e conservazione. Così come è altrettanto vero che, quasi mai, i materiali di biblioteca presentano tipologie riconducibili ad un unico standard di conservazione. Anche un libro antico presenta, nella sua struttura, materiali diversi (coperta in pelle o pergamena, compagine interna di carta, cuciture in filo di seta o di cotone, colle di varia natura, inchiostri della stampa e di eventuali annotazioni manoscritte, vernici di parti miniate) che richiederebbero parametri ambientali abbastanza diversificati per una conservazione ottimale. Però alla fine di ogni valutazione, bisogna adattarsi a soluzioni di compromesso, avendo maturato la consapevolezza che ogni soluzione, pur vantaggiosa per alcune componenti del manufatto, presenta degli inconvenienti per altre.
I Principi evidenziano ancora come i materiali prodotti con le nuove tecnologie siano considerevolmente più fragili e più labili di quelli tradizionali e richiedano scelte consapevoli e razionali nel momento in cui si stabilisce di destinarli alla conservazione, ponendo in atto scelte adeguate che ne garantiscano la permanenza nel lungo periodo.
I Principi sono infine una summa di raccomandazioni e indicazioni ispirate al senso comune, norme non assolute che stimolano la nostra intelligenza di operatori e fruitori dei materiali di biblioteca a fare scelte adeguate tenendo presenti in ogni contingenza le peculiarità e i problemi intrinseci ai vari materiali. Può sembrare singolare, per esempio, considerare la pulizia e l’ordine della biblioteca come deterrente dei furti, ma è senz’altro una cautela da porre in essere anche a questo fine oltre che per quello di creare l’ambiente più adatto per lavorare e conservare in buona salute i materiali della propria biblioteca.
Si tratta di una traduzione interlinguistica, cioè della restituzione di una serie di enunciati espressi in una lingua naturale ad un’altra lingua naturale. Il tradurre è un processo virtualmente infinito. Contrapponendo il binomio autore/creazione al binomio autore/traduzione, si può affermare che l’autore, nella libertà e nell’autonomia del processo creativo, può porre un limite al suo desiderio di perfezione, mentre il traduttore, essendo sempre ulteriormente perfettibile l’approssimazione all’originale, non può. Paradossalmente la traduzione, tendendo all’approssimazione all’originale, tende alla sua ri-produzione. Rivelando le implicazioni irrisolte di senso e di riferimento, l’approssimazione può scegliere di essere puntuale, con uno scambio parola per parola, o di tipo olistico, con un adeguamento globale al senso dell’originale.
La traduzione è un cimento, è un processo cui non è congeniale l’inerzia, l’immobilità spirituale, è esperienza non neutrale, e cioè socialmente e ideologicamente orientata, di interazione linguistica. È esperienza di frontiera, intesa non come linea di discrimine, ma come spazio dello sconfinamento, della transizione costante, della interazione tra le culture e della fluidità circolare dei processi testuali, luogo a partire dal quale è possibile creare oggetti di conoscenza, luogo in cui il testo si propone come momento di intertestualità.
È opportuno identificare, a questo punto, i modelli teorici che possono essere sottesi all’ideologia della traduzione: per esempio, un modello prescrittivo e un modello descrittivo, per una connotazione antitetica della relazione tra il soggetto (traduttore) e l’oggetto (testo). Il modello prescrittivo implica una relazione di potere, di autorità tra il soggetto egemone/centrale e l’oggetto subalterno/marginale. Il soggetto definisce i termini secondo cui trattare l’oggetto, delimita deliberatamente le descrizioni significative entro le quali recingerlo.
Il modello descrittivo implica invece una interazione dialogante tra il traduttore e il testo, che condividono uno spazio di intertestualità (la frontiera) propizio alla negoziazione delle descrizioni significative. La traduzione genera una lettura critica del testo di origine, adotta, rispetto a quello, un punto di vista, è una pratica di interscambio culturale.
Alla traduzione tecnico-scientifica (TTS) (quale grosso modo si può definire quella che si sta presentando) è stato riservato uno scarso rilievo teorico negli studi traduttologici, prevalentemente interessati alle traduzioni letterarie. La TTS ha una storia come fenomeno ma non come problema, sia per la concezione alinguistica della TTS, sia per la concezione puramente e banalmente lessicalista del linguaggio tecnico-scientifico (LTS).
La natura, i contenuti, il linguaggio della TTS si definiscono di solito antinomicamente rispetto alla natura, ai contenuti, al linguaggio della traduzione letteraria. La natura artistica, estetica, interpretativa della traduzione letteraria si contrappone alla natura strumentale della TTS; i contenuti della traduzione letteraria sono oggetti intellettuali, quelli della TTS sono oggetti materiali; il linguaggio della traduzione letteraria è connotato da particolarità stilistiche, sfumature, immagini, il linguaggio della TTS è impegnato nella precisione terminologica. Si ritiene quindi, di conseguenza, che il traduttore letterario sia un interprete, un coautore, mentre al traduttore tecnico-scientifico si richiede competenza lessicale, la conoscenza perfetta della terminologia settoriale, la padronanza dei referenti; il primo non ha bisogno di vocabolari, il secondo necessariamente si avvale di lessici e glossari. L’eleganza stilistica costituisce la connotazione di qualità della traduzione letteraria, per la TTS lo è l’esattezza terminologica, l’univocità con cui si attribuiscono alle nomenclature relazioni referenziali certe con oggetti materiali identificati senza ambiguità. La concezione alinguistica della TTS riduce questo tipo di traduzione ad una ricerca di sostituzioni, di equivalenze terminologiche, per cui un lemma, vicario di un altro lemma, è l’equivalente verbale di una cosa.
Se invece anche al testo tecnico-scientifico, e quindi alla sua traduzione, si riconosce la complessità del fatto linguistico, la TTS si qualifica non come tecnica di sostituzioni lessicali, ma piuttosto come esperienza di risemiotizzazione di sensi e di intenzioni comunicative interpretate attraverso l’analisi linguistica del testo di partenza e ricostruiti in una nuova trama linguistica di arrivo.
Un esempio per segnalare la complessità delle sostituzioni lessicali: nel termine italiano cura coesistono significati differenti: dall’interessamento solerte e premuroso per un oggetto, all’attività di gestione di un bene, allo studio e all’attuazione concreta di metodi e mezzi terapeutici per prevenire e combattere malattie, stati patologici, situazioni di anormalità, di degenerazione, di crisi. L’inglese care è invece univoco e determinato: implica una partecipazione intimamente convinta: si ha cura di ciò che si ritiene importante per sé. La polisemìa evocata dal vocabolo italiano, ogni volta che si parla di cura, rende ancora più avvincente il discorso perché arricchisce il contesto di estensioni semantiche e di sfumature possibili. Considerazioni analoghe valgono per il termine trattamento da noi utilizzato quale corrispondente dell’inglese handling.
Una concezione lessicalista del LTS si rivela poi particolarmente carente, quando si consideri la varietà dei livelli del LTS in rapporto al destinatario o al contesto. Il traduttore deve avere consapevolezza del livello di specializzazione (alto, medio, divulgativo) al quale si colloca il testo di partenza ed ha la responsabilità di restituirne il senso, il valore comunicativo nella lingua di arrivo, non affidandosi (evidentemente) a semplificanti sostituzioni terminologiche, ma mettendo in atto strategie linguistiche complessive, che investono la sintassi, i nessi logici, l’organizzazione testuale.
Come definire quindi il livello di specializzazione del testo dei Principi dell’IFLA 1998, di cui si propone la traduzione? Riteniamo che lo si possa definire un testo divulgativo, con una necessaria precisazione sulla accezione da attribuire a questa qualità. Anzitutto in questa definizione non vi è sfumatura di giudizio negativo. Con un’esposizione semplice e piana, si rendono accessibili nozioni tecnico-scientifiche sulla buona conservazione delle raccolte di biblioteca ad un vasto pubblico, ad un ampio bacino di utenza. Il linguaggio adottato non è certo un linguaggio settoriale (di nicchia), ma nemmeno massmediatico. Il “vasto pubblico” di cui si sta parlando non è certo un pubblico televisivo, ma è la comunità del personale di biblioteca, tutto, dal grado più elevato al grado più basso, dai più anziani ai più giovani, perché «tutti sono responsabili». Perché la conservazione comincia dalla formazione del consenso consapevole, unanime, partecipato, attivo e critico alla missione della tutela del patrimonio. Pensieri e gesti quotidiani, associati alla consapevolezza che ogni pensiero e ogni gesto ha una proiezione misurabile nel futuro, sono il “laboratorio permanente” della preservazione della memoria per il futuro; non l’ambulatorio specialistico, non il gabinetto medico, nei quali si affrontano transitoriamente le patologie accertate. Il linguaggio tecnico-scientifico dei Principi dell’IFLA del 1998 è la lingua condivisa dalla comunità operante con solerzia illuminata nel “laboratorio permanente”.
Non mancano infatti nella storia delle biblioteche italiane momenti in cui istanze esplicitate dai Principi siano state in vario modo espresse e discusse, anche in consessi importanti. Ricordiamo, per esempio, un Convegno organizzato nel dicembre del 1987 dall’Istituto Centrale per la Patologia del Libro, che presentava un duplice approccio alle problematiche della conservazione, quello considerato fino ad allora di alto profilo, cioè la conservazione del materiale di pregio (le raccolte manoscritte conservate dalle biblioteche italiane da sottoporre a campagne di microfilmatura, con attenzioni particolari per la conservazione anche dei master dei microfilm in istituti a ciò preposti) e quello della conservazione del materiale librario contemporaneo: era ed è senz’altro singolare che in quel contesto la relazione presentata da Angela Vinay richiamasse l’attenzione sulla riforma della legge sul deposito obbligatorio, sulla costituzione dell’Archivio nazionale del libro e sui problemi connessi di conservazione del materiale librario contemporaneo.
Richiamiamo il Convegno dell’ICPL del 1987 anche per proporre all’attenzione dei presenti e del mondo bibliotecario un’altra questione terminologica, che forse può sembrare irrilevante rispetto alla dimensione reale dei problemi della conservazione nelle biblioteche italiane. Abbiamo visto come l’IFLA abbia modificato i Principi anche attraverso l’adozione di un nuovo linguaggio nella formulazione dei titoli e dei contenuti. Abbiamo considerato come il termine italiano cura ha una duplice accezione nel contesto in cui ci troviamo a sviluppare la nostra disamina. Ci pare interessante segnalare a questo punto un intervento nel dibattito del Convegno del 1987 di Maurizio Copedé, responsabile del laboratorio di restauro del Gabinetto Vieusseux di Firenze, il quale comunicava che presso il suo Istituto avrebbe cessato di esistere il laboratorio di restauro per lasciare il posto ad un servizio di conservazione, concepito – così si esprimeva Copedé - come “unità sanitaria complessa, nella quale l’intervento chirurgico, cioè il restauro vero e proprio, avrà il suo giusto spazio; prevenzione, manutenzione e cure diverse avranno un impegno non inferiore”.
Ci chiediamo se per l’Istituto centrale per la patologia del libro, che da tempo ha imboccato la strada per la quale la prevenzione è da privilegiare rispetto al restauro, alla terapia chirurgica invasiva, non siano maturate le condizioni per segnalare i mutamenti dei tempi anche con un cambiamento di nome. Forse non è proprio una faccenda di poco conto.