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Al bambino che in compagnia del padre s'affacciava nel salone di un'antica biblioteca romana, venne istintivo di segnarsi e piegare il ginocchio: credeva d'entrare in una chiesa. La monumentale scaffalatura settecentesca in tre ordini sovrapposti, che torno torno alle pareti innalza le migliaia di volumi fin sotto la volta altissima; il finestrone di fondo, dal quale la luce del giorno piove nel gran vuoto dell'interno e indora le pergamene; certi busti marmorei di papi e di cardinali - gli ornamenta bibliothecae -; le persone ai tavoli curve sui libri, quasi in preghiera, avevano dato al fanciullo l'immediata sensazione del tempio.
Tali si presentano ancora molte delle nostre biblioteche storiche; tali desideriamo che rimangano, perché invero ben poche altre cose conosciamo che spirino il fascino suggestivo e solenne di questi antichi musei del libro, zeppi di rarità invidiateci da tutto il mondo.
Ma qualcosa purtroppo da anni, da decenni, viene a turbare ogni giorno di più, se non nelle linee architettoniche, nello spirito e nella originaria armonia questi venerandi musei; qualcosa li viene snaturando. Capita che lo studioso di antiche stampe s'incontri al banco di distribuzione col giovane che chiede «La Romana» di Moravia; capita che l'illustre filologo debba fare anticamera perché v'è in direzione un colonnello a riposo venuto a farsi tradurre su un'antologia scolastica alcuni versi di Heine.
Fortuna per le nostre biblioteche che la maggior parte degl'italiani ne ignorino tuttora la funzione, l'esistenza stessa! Comunque i tempi, sia pure lentamente, camminano; e questi poveri vecchi istituti si caricano sempre più, insieme coi
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loro tradizionali, di nuovi compiti di biblioteche di lettura, addirittura di gabinetti di lettura e di «bureaux d'information» per un pubblico vasto e vario - studenti e vecchi pensionati, preti e giornalisti, professori d'università e lettori qualunque -; e i bibliotecari, mentre ogni altra professione tende alla specializzazione, continuano a essere i bibliotecari-omnibus d'un tempo, avendo davanti a sé un campo enormemente ingranditosi. È razionale tutto questo? Avviene all'estero? E se là non avviene, perché avviene da noi?La risposta è nota, ed è semplice: scarseggiano in Italia tanto le biblioteche speciali quanto quelle «specializzate nel non specializzarsi», secondo l'espressione del Prezzolini; mancano quegli attrezzati centri di documentazione, così diffusi negli altri paesi: dove la curiosità intellettuale, che non conosce titoli di studio né distinzione di classi sociali, si appaga e si alimenta incessantemente, e che perciò costituiscono uno strumento più efficace e duraturo della scuola per l'elevamento culturale dei cittadini. Un tale tipo di biblioteca, da concepirsi come un servizio pubblico al pari dell'illuminazione stradale, dell'igiene e della viabilità, è da noi sconosciuto, a meno che non si vogliano far rientrare in esso quelle mortificanti biblioteche «popolari», prive di ogni decoro e perciò nella sostanza, antidemocratiche. È comprensibile che siano stati proprio i più intelligenti conservatori delle nostre biblioteche storiche a lamentare tale mancanza e a reclamare che delle accoglienti biblioteche «per tutti» (così vengono chiamate in Svizzera) sorgessero anche in Italia, pagate dai cittadini mediante un'imposta speciale.
Ma tali moderne biblioteche non sono sorte; perciò invano, da ormai mezzo secolo, si denunciano da bibliotecari e studiosi sempre le medesime deficienze di quelle esistenti: angustia di locali, limitatezza di orari, scarsezza di personale, inadeguatezza di servizi, povertà di dotazione e quindi di raccolte, ecc. Non che dei provvedimenti in favore delle biblioteche non siano stati presi e non si prendano; ma i problemi di questi organismi a struttura complessa essendo interdipendenti, avviene che dei miglioramenti parziali pongano in maggiore risalto le manchevolezze a cui non s'è rimediato. Alcune biblioteche hanno finalmente una sede nuova, ma possiedono cataloghi antiquati, di più tipi; altre
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hanno un catalogo unico, moderno, ma le nuove accessioni vi giungono con ritardo di mesi, talvolta di anni, quando hanno ormai perduto il pregio della novità; alcune biblioteche sono discretamente aggiornate in fatto di pubblicazioni recenti, ma la crisi dello spazio obbliga i direttori a collocare i libri in terra o a deturpare monumentali saloni; e così via. Si consideri inoltre che i faticosi progressi sono in pratica annullati dal rapido crescere delle esigenze degli studi, e che comunque essi non possono risolvere (semmai contribuiscono ad accantonare) il problema maius della creazione delle biblioteche di nuovo tipo, dalle quali soltanto le altre potrebbero sperare la fine delle loro angustie. Questo non s'è voluto capire finora. «Il problema delle Biblioteche - affermava malinconicamente un bibliotecario venticinque anni fa - in Italia non esiste: nessuno ha mai voluto affrontarlo, nessuno tenterà di risolverlo, almeno per un pezzo»,1 e purtroppo indovinava.La decadenza delle biblioteche italiane è dunque irrimediabile? Sarebbe difficile trovare un campo in cui la modernità e il progresso siano altrettanto a portata di mano per gli esempi che ci vengono forniti dall'estero, e nel quale invece siamo attanagliati da una così persistente arretratezza di condizioni. Né studiosi, né studenti né lettori generici hanno le biblioteche a loro adatte: ve ne sono alcune, forse anche molte, che mal servono a tutti. In fatto di biblioteche non esistono in Italia categorie di privilegiati. Tali sono soltanto coloro che possono comprarsi i libri di tasca propria. È perfino strano come un problema che interessa ogni categoria, si può dire la totalità dei cittadini, susciti così scarse proteste e polemiche, quasi che il libro non sia uno strumento indispensabile alla vita intellettuale di ogni ceto di persone, e la biblioteca un'istituzione sociale, nel suo campo, insostituibile.
Anche le deficienze delle biblioteche italiane, come ogni altra, dipendono da cause storiche e rivelano l'attardamento del nostro processo democratico. Se vogliamo intendere nella sua genesi una crisi che si può considerare cronica, e che
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pertanto è qualcosa di più che una crisi, dobbiamo rifarci molto indietro.L'età d'oro delle biblioteche italiane va dal secolo dell'umanesimo a quello dell'illuminismo. Per circa quattro secoli esse furono tra le prime d'Europa, e mentre non cessavano d'arricchirsi di collezioni private e di preziosi manoscritti ricercati dovunque, dotti di tutta Europa accorrevano ad ammirarle e a esplorarle. Testimonianza di tale ammirazione e delle fortunate esplorazioni sono quegli «Itinera», e consimili opere, dei Montfaucon, Mabillon, Fischer, Andres, interessanti non solo per le osservazioni che contengono intorno alle nostre raccolte e alla vita bibliotecaria dell'epoca, ma anche per le notizie e gli elenchi di fondi manoscritti, alcuni dei quali andarono poi dispersi o distrutti, o incorporati in biblioteche maggiori.
Le biblioteche si avvantaggiarono dei regimi assolutistici. In un'epoca in cui per gli Stati non esistevano le spese dell'istruzione obbligatoria, ciò che i sovrani potevano destinare all'incremento della cultura era dato in gran parte alle biblioteche, le quali, anche quando fossero destinate «publicae, maxime pauperum, utilitati», servivano naturalmente a pochi. In Italia, come in Germania, piuttosto che alle università esse si appoggiavano alle corti. E poiché libri e collezioni di libri sono stati sempre, fin dai tempi di Seneca, oltreché mezzi di studio anche un ornamento e un oggetto di vanità, accadeva che non solo sovrani, ma nobili, prelati e ordini religiosi, come innalzavano palazzi, musei, chiese e conventi, profondessero a gara ingenti somme per allestire sontuose biblioteche, alle quali li portava una tradizione umanistica, non spenta neanche durante l'età della Controriforma: ne sono prova le due più antiche biblioteche «pubbliche» del continente, l'Ambrosiana di Milano e l'Angelica di Roma, fondate nei primi anni del Seicento. Essendo la biblioteca considerata ancora un possesso privato del principe, eruditi e bibliotecari, come ai tempi dell'umanesimo, intrattenevano coi sovrani rapporti diretti, e da questi rapporti nasceva uno scambio di sollecitazioni e di stimoli all'operosità e al mecenatismo, che si risolveva in vantaggio della cultura.
La maggior parte delle grandi biblioteche pubbliche nacquero nel Settecento. La disponibilità di un abbondantissimo
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materiale, manoscritto e a stampa, accumulato in tre secoli di collezionismo e di attività tipografica; la rinascita degli studi eruditi e della tipografia come arte; l'incameramento delle raccolte gesuitiche in seguito alla soppressione dell'ordine, favorirono l'istituzione e l'incremento di numerose biblioteche pubbliche, alla cui direzione venivano chiamati i più grandi eruditi del secolo: i Muratori, i Tiraboschi, gli Affò, ecc., e che nel sontuoso stile dei loro saloni servivano di modello a tutta l'Europa. Nonostante gli orari limitati e altre restrizioni alla pubblica lettura, si può affermare che per tutto il secolo decimottavo le biblioteche italiane adempirono nobilmente la loro funzione. Il giudizio negativo sulle biblioteche del suo tempo dato dal Muratori - alle cui eccezionali esigenze di studioso nessuna biblioteca poteva esser pari - è da considerare troppo severo;2 esse comunque fecero ancora notevoli progressi. Il carattere enciclopedico della cultura contemporanea, essendo la produzione editoriale tuttora limitata e prevalentemente erudita, era in genere abbastanza rappresentato dalle biblioteche regie, ducali o religiose, le più importanti delle quali si aggiornavano in fatto di collezioni e periodici stranieri, anche se vi difettasse per ovvie ragioni la letteratura d'oltralpe d'avanguardia, polemica e volterriana. Le biblioteche furono dunque nel Settecento al centro dell'attività erudita.Ma in seguito all'invenzione della macchina da stampa di Koenig e Bauer (1811) e ad altre successive, il libro, con le accresciute possibilità di una sua moltiplicazione sempre più rapida, subì un processo di democratizzazione, visibile anche nella perdita della rilegatura e nel diffondersi della copertina, fino allora poco usata. Di tali invenzioni tecniche assai si giovò l'età del Risorgimento, come già dell'invenzione della tipografia s'erano giovati Umanesimo e Riforma. I turbinosi eventi politici, le alterne rivoluzioni e restaurazioni, mentre distraevano i sovrani dal mecenatismo per la cultura, occasionarono, una larga produzione letteraria
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divulgativa e di propaganda (si pensi alla collezione dei Classici italiani, alle edizioni di Bettoni, Silvestri, della tipografia Elvetica, ecc.), spesso polemica e clandestina, che non poteva naturalmente trovar posto nelle biblioteche - le quali per essere pubbliche dipendevano da autorità rese sospettose dagli avvenimenti - , o se anche entrasse in parte in quelle già allora fruenti del diritto di stampa, difficilmente poteva esercitarvi la sua missione.Mentre dunque il libro diveniva sempre più un prodotto «di consumo», aderente alla realtà del tempo, interprete di nuove, vaste aspirazioni e strumento di lotta, ma destinato a esistenza effimera, le biblioteche italiane cominciarono nella prima metà del secolo scorso a estraniarsi dalla vita intellettuale dell'epoca e accentuarono il loro carattere di conservazione. Tale loro carattere si accrebbe ancora quando, a unificazione avvenuta della nazione, affluì per disposizione di legge nelle troppe biblioteche ereditate dallo Stato la marea dei fondi dei conventi soppressi, che provocò in molte di esse crisi di spazio e di personale. Cominciò a delinearsi allora quella che sempre più si sarebbe rivelata in seguito come la paradossale situazione delle nostre biblioteche, incapaci di seguire, non fosse altro mediante una loro specializzazione, la sempre più vertiginosa produzione editoriale, e incapaci nello stesso tempo di sistemare convenientemente, di assimilare quel qualunque materiale librario che venivano immettendo. Questa continua immissione avrebbe dovuto imporre, oltre all'aggiornamento dei lavori bibliografici, nei quali i nostri eruditi bibliotecari del Settecento erano andati così avanti, l'ampliamento degli edifici, il rinnovamento delle attrezzature e dei servizi, in armonia con una tecnica bibliotecaria che veniva altrove facendo rapidi progressi, e nella quale pure nei secoli scorsi eravamo stati maestri all'Europa. Che i nostri bibliotecari fossero tuttora capaci d'iniziativa e di creatività anche in questo campo, dimostrano un Leopoldo della Santa, autore fin dal 1816 di un razionale progetto di grande biblioteca pubblica, che trovò ammirazione all'estero ma non esecuzione in Italia, e soprattutto l'esule Antonio Panizzi, rinnovatore geniale a Londra, dopo il 1850, della biblioteca del British Museum.
È stato osservato che i primi regolamenti delle
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biblioteche governative, del 1869, del 1876 e del 1885, contenevano opportune disposizioni, le quali se fossero state applicate avrebbero avviato i nostri istituti a un notevole miglioramento. Tali disposizioni concernevano la specializzazione delle biblioteche, la stampa dei cataloghi di manoscritti e la compilazione di speciali indici; la disciplina degli acquisti fra le varie biblioteche d'una stessa città; il cambio o la vendita dei duplicati; corsi di bibliografia per gli impiegati, la lettura serale nelle biblioteche universitarie, ecc.3 Alludendo a queste disposizioni e alle facilitazioni che si erano introdotte nel prestito dei libri, il Biagi vent'anni più tardi parlava «di una riforma che ha rinnovato in gran parte la coltura italiana»; quantunque subito dopo fosse costretto a smentirsi lamentando che la promessa rappresentata dal regolamento del 1885 «per le mutate fortune della pubblica istruzione in Italia» non fosse stata mantenuta.4 In realtà nessuna, o quasi, delle migliori disposizioni contenute in quei regolamenti ebbe esecuzione, causa la mancanza d'impulso dal centro. «Mancò la grande iniziativa centrale che doveva sostituirsi alle singole regionali già da tempo cadute, e tutte doveva ravvivarle e riassumerle per lanciarsi ai progressi nuovi».5In qual modo poi il nuovo Stato italiano intendesse provvedere al servizio della pubblica lettura nei numerosissimi centri privi di biblioteca, possiamo apprenderlo da questo: che abbandonò, più che affidare, ai singoli Comuni le migliaia di minori biblioteche ex conventuali sparse dovunque, con l'invito a renderle pubbliche. È facile immaginare quanto fossero adatti a trasformarsi in organismi vivi dei vecchi fondi monastici di libri teologici e ascetici; non c'è pertanto da meravigliarsi che molte librerie rimanessero polverose e inutilizzate in edifici comunali o presso le scuole, e che non poche finissero - con le pregevoli edizioni che quasi sempre contenevano insieme a tanta zavorra - divorate dagl'insetti o distrutte da incendi, da crolli, o infine «scremate» da esperti antiquari.
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Sorgevano intanto (a Prato nel 1861, per iniziativa di Antonio Bruni, poi altrove) le prime «popolari» tra fiammate di ardori apostolici: si creavano comitati, si pubblicavano annuari. Ma lo Stato e i Comuni ignorarono sistematicamente queste istituzioni, che se fossero state sostenute e rese suscettibili d'incremento avrebbero potuto dissodare efficacemente il campo della cultura popolare. Scorrendo la «Bibliotheca bibliographica italica» di Ottino e Fumagalli nella parte che riguarda le biblioteche, s'incontrano per il periodo 1860-1900 molti numeri costituiti da cataloghi, relazioni, statuti, regolamenti e notizie di biblioteche comunali e popolari, che dànno l'impressione di una vita ricca e intensa di tali istituti, presenti anche in molti piccoli centri. Si trattava però per la maggior parte di assai modeste raccolte, che la passione dei pionieri e magari la vanità provinciale gonfiava d'importanza, e che comunque erano prive, in generale, di possibilità di sviluppo. Abbandonate a se stesse, nonostante i generosi sforzi di pochi individui, dopo un decennio di promesse le «popolari» cominciarono a stentare la vita, a morire; e alla fine del secolo s'erano ridotte alla metà di quante se ne contassero trent'anni prima, con un materiale librario, oltreché in genere scadente, invecchiato.
Gioverà tener presente che in quello stesso periodo di tempo nei paesi anglosassoni (in Inghilterra prima, in virtù del bill Ewart del 1850, poi negli Stati Uniti) la biblioteca pubblica si affermava come un servizio di grande importanza, al quale tutti i cittadini erano chiamati a provvedere mediante il pagamento di una tenue imposta comunale: il che risolveva una volta per sempre in quei paesi, in modo soddisfacente, il problema della pubblica lettura.6 In America i pionieri che fondavano un villaggio, per primi costruivano tre edifici: la chiesa, la scuola e la biblioteca. I favolosi mecenatismi dei Carnegie e dei Rockefeller fecero il resto.
Un malinteso senso di venerazione per gli inestimabili
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musei di antica carta manoscritta e stampata, e una totale incomprensione delle necessità nuove, determinarono la paralisi delle nostre biblioteche arrestando alle loro soglie l'onda della modernità, che altrove veniva trasformando o creando di sana pianta consimili istituti. La specializzazione scientifica e l'istruzione obbligatoria mancarono di operare in Italia quella scissione delle biblioteche in diversi tipi, che sarebbe stata necessaria. Fornite originariamente d'indirizzo enciclopedico o ecclesiastico, adesso, nell'impossibilità di mantenere l'uno o l'altro, vennero assumendone uno genericamente umanistico, pur non potendo dirsi specializzate neanche in questo campo.Bisogna riconoscere che l'età liberale e laica non seppe fare in Italia per le biblioteche quanto avevano fatto per esse l'età della Controriforma e i «tirannelli» del Settecento, e così mancò, almeno in questo settore, alla sua missione educatrice. Immemori del glorioso passato, insensibili agli esempi di fuori, i governi liberali, trincerandosi dietro le solite ragioni di economia, finirono per fare delle biblioteche un angolo morto della cultura, mentre avrebbero dovuto farne di nuovo un centro vivo.
Verso la fine del secolo assistiamo a un risveglio se non delle biblioteche, nelle biblioteche - ma soltanto di un certo tipo. Fu merito in gran parte della filologia e della erudizione salite di nuovo in onore, e della scuola storica, alla quale anche se non appartenessero s'ispiravano quei bibliotecari che illustrarono allora la professione. Si presero a compilare cataloghi a stampa di fondi manoscritti; s'iniziarono, a spese dello Stato, l'importante collezione «Indici e cataloghi» (1884), che doveva poi per tanti anni rimanere interrotta, e i Bollettini delle opere italiane e di quelle straniere pervenute alle biblioteche governative, a cura delle Nazionali di Firenze e di Roma (1886); nacquero la rivista «La Bibliofilia» (1899) e la collana «Inventari dei manoscritti delle Biblioteche d'Italia» (1891), edite dall'Olschki;7 sorse a Milano un'attiva Società Bibliografica (1896), che
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presto ebbe come suo organo la vivace «Rivista delle Biblioteche», nata nel 1888; iniziò la pubblicazione quell'utilissimo «Catalogo generale della libreria italiana» (1901), compilato personalmente dal bibliotecario Pagliaini. Furono imprese benemerite e coraggiose, impiantate su salde basi e perciò in buona parte ancora oggi in vita. Ad iniziativa di Ferdinando Martini e di Pasquale Villari lo Stato aveva acquistato nel 1884 una parte dell'importante collezione di codici Ashburnhamiani, che andò ad arricchire i tesori della Laurenziana.Senonché fu proprio in seguito a tale risveglio che nei dibattiti ai primi congressi, nelle polemiche sulla stampa e nelle discussioni in Parlamento si cominciò ad esaminare la situazione generale delle biblioteche e ad accorgersi quanto grave essa fosse e bisognosa di un radicale rinnovamento. La esatta diagnosi dei loro mali fu fatta allora. «Il tipo della nostra biblioteca non è un tipo italiano, è semplicemente il tipo della biblioteca in ritardo, il tipo della biblioteca arretrata».8 La diagnosi fu ripetuta più volte in seguito, ma nessun rimedio venne adottato. Inutile gettare allarmi e dire che le biblioteche non rappresentavano «un problemuccio, ma una questione nazionale»; inutile dichiarare in Senato, come fece l'on. Arcoleo, che «in nessun altro ramo urge, come in questo, svecchiare e rinnovare», e mettere il dito sulla piaga riconoscendo che l'argomento delle biblioteche «non stimola la pubblica opinione» e che «tale oblio o indifferenza è il torto delle così dette classi dirigenti».9 La pubblica opinione non si commuoveva allora, come non si commuove oggi; e per quanto riguardava il governo, alla minaccia dell'Arcoleo di rinnovare ogni settimana un'interpellanza al ministro del Tesoro sull'organico delle biblioteche, il ministro rispondeva, suscitando l'ilarità generale, che il ministro e il Senato avrebbero guadagnato molti bei discorsi.
Generazioni di bibliotecari invecchiarono, scomparvero, e le cose restarono al punto di prima. Basterà ricordare che
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dal 1860 al 1935 un solo nuovo edificio di biblioteca governativa sorse, a Padova e due trasferimenti ebbero luogo, della Marciana di Venezia e della Nazionale di Napoli dal palazzo del Museo alla Reggia, dove peraltro solo in seguito all'avvento della Repubblica essa ha potuto liberamente disporre di tutto lo spazio che le abbisognava. Il personale per la trentina di biblioteche governative scese nel 1925 a meno di duecento impiegati (la sola Biblioteca del Congresso di Washington ne contava il doppio); le dotazioni in bilancio, già irrisorie, subirono in proporzione una forte riduzione: cioè, mentre nel 1875 le spese per le biblioteche rappresentavano il 4,40 per cento del bilancio della pubblica istruzione, nel 1920 scesero al 0,85.10 È vero che un'analoga riduzione subirono nello stesso periodo i bilanci della istruzione media e di quella superiore; ma non si rifletté che l'impulso dato alla istruzione elementare era in gran parte vano senza l'integrazione della biblioteca pubblica; non si rifletté che l'analfabetismo «di ritorno» e il più esteso e dannoso semianalfabetismo mentale di gran parte della popolazione anche cosiddetta civile si evitano e si vincono con il libro offerto a tutti in ambienti confortevoli e attraenti, e che senza la biblioteca pubblica anche una buona istruzione scolastica rimane atrofizzata, non riesce cioè a trasformarsi in cultura viva. Un indice eloquente, citato dal Nalli, può essere questo: che mentre nell'anno 1875 ai due milioni di spese per la istruzione elementare corrisposero 822 mila lettori nelle pubbliche biblioteche, quarant'anni più tardi, nonostante l'aumento della popolazione, a 46 milioni spesi per lo stesso capitolo corrisposero appena trecentomila lettori in più. Aveva ragione il Biagi di affermare che la incuria delle biblioteche è nel «pregiudizio inveterato, che il Governo ribadisce, consistere la pubblica istruzione soltanto nelle scuole, in quelle povere scuole destituite anche del materiale didattico...».11È naturale che gli unici sforzi per rimediare alla grave deficienza partissero da un gruppo di uomini politici, educatori e bibliotecari, orientati verso il socialismo. In seguito
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all'importante Congresso di Roma del 1908 (al quale in verità presero parte individui di tutte le tendenze politiche) fu costituita a Milano la Federazione italiana delle biblioteche popolari, che in venticinque anni di vita molto fece per assistere, incrementare, promuovere l'istituzione di biblioteche di questo tipo in ogni regione d'Italia: molto fece se si considerino le difficoltà che il terreno presentava, particolarmente nel Mezzogiorno. Il compito era immane, e le condizioni sociali di certe provincie erano tali che la creazione di bibliotechine per il popolo poteva sembrare perfino prematura; senonché mentre nel nord le «popolari» si rivolgevano a un proletariato industriale evoluto, in Sicilia e in Basilicata miravano soprattutto a redimere la piccola borghesia di provincia, che la mancanza di libri e la povertà di comunicazioni abbrutivano nell'ozio o intorno ai tavoli di giuoco.12 Ben altro sarebbe occorso perché si ottenessero risultati durevoli, grandiosi, e le popolari si trasformassero in stabili biblioteche di cultura generale. I mezzi per ciò mancarono, e quelle raccolte rimasero, e tuttora rimangono, confinate entro i limiti di una categoria inferiore.Sembrò che lo Stato volesse finalmente aprir gli occhi e fare qualche cosa quando, nel 1917, fu emanato un decreto luogotenenziale che faceva obbligo a ogni comune d'istituire presso le scuole elementari biblioteche «per ex alunni e adulti». Ma si trattò di un provvedimento irrisorio, che rimase lettera morta giacché non indicava i mezzi con cui le amministrazioni comunali avrebbero dovuto provvedere alla nuova istituzione. È vero che presso le scuole elementari e medie sorgevano intanto bibliotechine per insegnanti e per alunni; ma la povertà anche di queste, il loro carattere non pubblico e la stessa natura delle raccolte le rendevano scarsamente utili.
Fino all'anno 1926 le biblioteche pubbliche non ebbero un apposito organo direttivo in seno al Ministero della pubblica istruzione, ma dipesero dalla Direzione generale della istruzione superiore: il che può spiegare a sufficienza il loro destino di Cenerentole. La creazione, avvenuta in quell'anno,
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di una Direzione generale delle Accademie e Biblioteche doveva naturalmente migliorare la situazione. Si cominciò col provvedere all'edilizia delle governative: venne ripresa e portata a termine la costruzione, che si trascinava da decenni, della nuova Nazionale di Firenze, la quale poté nel 1935 trasferirsi in una sede sontuosa, seppure ormai stilisticamente sorpassata; rinnovate furono le Universitarie di Genova, Roma, Cagliari; importanti restauri ebbero la Marciana di Venezia, l'Universitaria di Bologna, la Governativa di Cremona, la Vallicelliana, la Casanatense, l'Angelica di Roma. Altre furono ampliate, nuovamente arredate, fornite di scaffalatura metallica. Si trattava, come è stato osservato, di rinnovamenti soltanto esteriori, che il più delle volte mascheravano vecchie deficienze. Ma non bisogna tacere di altri utili provvedimenti, che vennero presi in quegli anni: l'immissione di nuovo personale mediante concorsi che non si bandivano da un ventennio; l'attivazione delle Soprintendenze regionali, esistenti sulla carta fin dal 1919, e per mezzo di esse il censimento, l'esplorazione e qualche assistenza alle biblioteche comunali, ecclesiastiche, popolari; la istituzione presso la Nazionale di Roma di un modesto Centro d'informazioni bibliografiche; il restauro di cimeli deteriorati; l'incremento degli acquisti; l'allestimento di mostre; la ripresa della collezione «Indici e cataloghi»; la pubblicazione di una rivista «Accademie e Biblioteche d'Italia», edita dal Ministero della educazione nazionale; l'istituzione presso le Soprintendenze di corsi annuali per dirigenti delle biblioteche popolari: corsi che in mancanza di biblioteche da dirigere servirono a dare ai maestri qualche utile nozione di bibliografia.13 In seguito al Congresso mondiale delle Biblioteche tenutosi a Roma nel 1929 sorse anche in Italia un'Associazione per le biblioteche (la Società Bibliografica si era spenta nel 1916), la quale esplicò la sua attività soprattutto con l'organizzare convegni annuali e col partecipare a quelli internazionali.[p. 87]
A dire il vero non uno dei massimi problemi venne neanche allora affrontato: non quello della catalogazione centrale, adottata in forme diverse nei principali paesi del mondo; non quello della Nazionale di Roma, sempre più penosamente inadeguata rispetto alla sua funzione di carattere nazionale; non quello della creazione di moderne biblioteche di cultura generale, «per tutti». In questo settore il regime dimostrava di volere andare incontro al popolo sopprimendo nel 1932 la benemerita Federazione milanese, intinta di umanitarismo socialista, e irreggimentando le bibliotechine popolari in un Ente burocratizzato e settario. Le popolari, il cui numero venne gonfiato dalle migliaia di insignificanti raccoltine presso i Dopolavoro, ebbero da questo momento il precipuo scopo di servire alla propaganda politica: le biblioteche popolari e scolastiche assommare a 22 mila; l'Ente essere il primo d'Europa - mentre in realtà eravamo e siamo all'ultimo posto. Come i governi liberali avevano ignorato quello che contemporaneamente si faceva per le biblioteche nei paesi anglosassoni, così il fascismo non volle vedere il rivoluzionario, grandioso sviluppo che le biblioteche venivano assumendo nell'Unione Sovietica, dove lo Stato, in armonia con lo straordinario incremento dato alla istruzione obbligatoria e alla ricerca scientifica, in armonia con l'enorme sviluppo della produzione editoriale, creava o potenziava migliaia e migliaia di biblioteche d'ogni tipo: da quelle modernissime e mastodontiche di Mosca e di Leningrado alle minuscole bibliotechine ambulanti, che seguono i pastori sulle montagne.14
Città dell'Italia meridionale di centinaia di migliaia di abitanti, come Napoli e Taranto, non avevano una sola biblioteca per il popolo: il che non impediva che nelle acque di quei porti si specchiassero superbe navi da guerra del costo di miliardi, destinate a inabissarsi nei mari o a cambiare bandiera in seguito alla disastrosa avventura della guerra. Lo scoppio della seconda guerra mondiale doveva rimandare alle calende greche l'attuazione di un disegno di legge
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riguardante le biblioteche dei capoluoghi di provincia e del progetto per l'ampliamento della Nazionale di Roma: progetto che dopo venti anni di fascismo era finalmente arrivato sul tavolo di Mussolini.Che cosa la guerra abbia fatto di tanti fragili organismi delle «popolari»; quanti e quali danni abbiano subìto negli edifici e nel patrimonio librario le biblioteche governative di Torino, Palermo, Napoli, Parma, Cagliari e molte comunali, non è qui il caso di dire.15 Si stanno ora lentamente e faticosamente sanando le ferite; ma le lacune verificatesi negli ultimi anni nelle collezioni e nei periodici stranieri non sono facilmente colmabili: di ciò si vanno purtroppo rendendo conto gli studiosi più seri. Il persistere e anzi l'aggravarsi di tali lacune dipende oltreché dalla mancanza di valuta estera a disposizione dei librai e delle biblioteche, dalle complicazioni burocratiche nei rapporti internazionali in questo settore e dalla mancanza d'iniziativa: di quella iniziativa che va riprendendo perfino in Germania.16 Qualche aiuto, nella forma di doni di libri e riviste americane, ci viene d'oltre oceano; qualche altro ci è promesso dal piano Erp; ma tutto ciò, anche se bene accetto, non potrà mutare la situazione, che è di grande miseria: non si acquistano tante opere costose, di cui soprattutto oggi le biblioteche dovrebbero fornirsi per venire in aiuto agli studiosi, caduti tutti in povertà; le rilegature si riducono al minimo. Il bilancio delle biblioteche governative (tolte le spese per il personale) non supera i cento milioni di lire. Se si pensi che i sette milioni di anteguerra erano considerati del tutto insufficienti, che cosa dobbiamo dire oggi che il prezzo dei libri è aumentato da allora, in media, quaranta volte? Dal 1940 è interrotta la pubblicazione del Bollettino delle opere moderne straniere, e del suo indice decennale siamo ancora alla metà (pubblicata nel 1938) del volume relativo al decennio 1920-1930; la rivista «Accademie e Biblioteche d'Italia» morì nel 1942 e non accenna a risuscitare o ad essere sostituita da
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altra; l'Associazione per le biblioteche va ora faticosamente riprendendo la sua attività.Per quel che riguarda le biblioteche per il popolo, da qualche congresso di educatori e di bibliotecari s'indirizzano di nuovo all'opinione pubblica e al Governo quegli stessi appelli che in passato trovarono così debole eco, perché si affronti con radicali provvedimenti il grave problema. Un recente progetto, annunziato dal Ministro della pubblica istruzione e discusso in seno al primo Convegno nazionale delle biblioteche popolari e scolastiche tenutesi a Palermo nel novembre scorso, prevede l'istituzione di biblioteche aperte a tutti «presso ogni Comune, in corrispondenza dei Circoli didattici, ove non esistano biblioteche di carattere pubblico». Benché l'esperienza insegni che la biblioteca popolare presso la scuola elementare suole ingenerare equivoci e incontra gravi difficoltà di convivenza, tuttavia la creazione a spese dello Stato di centinaia e forse migliaia di vivi nuclei librari riuscirebbe, se ben organizzata, d'indubbia utilità. Lo sviluppo dei nuovi nuclei e la loro successiva trasformazione in autonome biblioteche di cultura generale resteranno sempre affidati alla istituzione della imposta accennata. Ma se il progetto odierno sarà realizzato ciò significherà che finalmente lo Stato, il quale spende oggi non più di tre milioni annui per assistere le biblioteche popolari - mentre ne spende oltre millequattrocento per l'educazione fisica - comincia a sentire in forma concreta i suoi doveri verso questo importante quanto negletto strumento di elevazione del popolo.
Ci sia ora consentito di venire a esaminare più particolarmente la situazione odierna dei vari tipi di biblioteche e di indicare alcune soluzioni.
Al centro della discussione deve porsi la creazione della grande Biblioteca Nazionale di Roma, la cui mancanza rappresenta oltreché un grave danno per gli studi, un troppo evidente titolo d'inferiorità rispetto ad altri paesi civili. Delle trentadue biblioteche governative la Vittorio Emanuele non è né la più ricca né una delle più antiche. Per ovvie ragioni storiche il nascente regno d'Italia non trovò a Roma quella biblioteca di carattere nazionale, formatasi lentamente nei
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secoli, che rappresentasse quasi l'archivio di tutta la produzione libraria italiana dall'inizio della tipografia: paragonabile alle grandi biblioteche di Parigi, Londra, Berlino, Mosca e Washington. Senza larghezza di vedute venne creata nel 1876 in un'ala del gesuitico Collegio Romano la nuova Biblioteca Nazionale Centrale mediante l'incorporamento di sessanta librerie conventuali; e benché poi arricchita di notevoli lasciti e acquisti di private raccolte, benché fruente del diritto di stampa e fornitasi più di ogni altra biblioteca d'Italia di moderne opere e riviste straniere; benché accresciutasi di nuove sale di studio, e dotata di un unico catalogo degli stampati; benché la più frequentata d'Italia, essa è ancora oggi inferiore alle Nazionali di Firenze e di Napoli per numero di volumi e ad alcune altre per copia di manoscritti. Quanto poi alle condizioni dei locali, delle attrezzature e degli impianti essa è forse la più indecorosa d'Italia. Gli studiosi che hanno bisogno di ricorrervi lo sanno bene; del resto le condizioni odierne non sono molto diverse, in proporzione, da quelle che ispiravano alla musa pseudonima di Marco Balossardi una espressione di compatimento per il suo nuovo bibliotecario:Povero Gnoli condannato a morte
nel caos della Vittorio Emanuele!
Una fortunata occasione si presenterebbe ora di risolvere economicamente il problema fondamentale della sede e di attuare la sistemazione progettata nel 1940 dall'architetto Prandi: sapremo afferrarla?17 Giacché non è più il caso ormai di sperare nella costruzione di un edificio apposito: la Biblioteca Nazionale di Roma non può avere un simile privilegio, riservato alle stazioni ferroviarie e magari ai musei storici della Guardia di finanza.
Fu soprattutto l'inadeguatezza della Vittorio Emanuele che favorì il sorgere in Roma di alcune biblioteche governative speciali, formatesi o a spese della stessa Nazionale o mediante donazioni e acquisti di raccolte private: ci riferiamo in modo particolare alle Biblioteche dell'Istituto di
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archeologia e storia dell'arte e dell'Istituto di storia moderna e contemporanea. Quelle due biblioteche si rivelano indubbiamente utili, ma esse dimostrano l'assoluta casualità e addirittura incoerenza con cui si risolve in Italia il delicato problema delle biblioteche speciali. Perché vennero create proprio quelle due e non altre di analoghi istituti ed enti culturali? Non sarebbero state sufficienti per le necessità di quei due Istituti, raccolte di consultazione? Infine, la sede più opportuna per le biblioteche speciali non è forse l'Università? Presso l'Università si vanno infatti formando collezioni di libri di archeologia, di storia e di ogni altra materia. Se si tien conto delle biblioteche dei Ministeri, della Camera e del Senato, degli istituti ecclesiastici, del Consiglio delle ricerche e dell'Istituto internazionale di agricoltura (assorbito ora dalla Food Agricultural Organization) e di tante altre, le biblioteche a Roma sono così numerose, i loro acquisti così poco coordinati, che per condurre uno studio serio è necessario correre in più di esse, sempre con la speranza, mai con la certezza, di trovare quel che si cerca.Oltreché, quindi, la disciplina (coordinamento o assorbimento) di alcune minori governative, la sistemazione della grande Nazionale di Roma implicherà necessariamente la creazione di un servizio del genere di quello che in Inghilterra è ottimamente disimpegnato dalla londinese National Central Library, e soprattutto l'inizio di quella catalogazione centrale degli stampati (union catalogue) delle più importanti biblioteche di Roma e d'Italia, alla quale dopo oltre sessant'anni di proposte e progetti non siamo ancora arrivati.18 Tralasciamo per brevità di menzionare altre imprese, sempre di carattere centrale, che si dovranno pure affrontare quando la ridesta coscienza degli studiosi reclamerà nuovi indispensabili strumenti di ricerca e di studio: accenniamo soltanto allo spoglio sistematico dei periodici culturali e scientifici, e a un servizio di Stato per la riproduzione fotografica dei manoscritti e degli stampati. Quest'ultimo, benché non sia concepibile legato a una sola biblioteca, ma
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debba aver sede in città diverse dove sono le più importanti raccolte, può tuttavia per certe necessità far capo a una biblioteca, o istituto, centrale, se è vero che in America esiste una Microfilm University, e a Parigi è sorto un assai utile e generoso Institut de recherche et d'histoire des textes. Mentre l'uso del microfilm si va estendendo rapidamente, le biblioteche di Firenze e di Roma, ricche di manoscritti e stampati ricercati da studiosi di tutto il mondo, non possiedono ancora una sola macchina per la lettura dei microfilms. Se lo studioso residente a Roma può ricorrere alla Biblioteca Vaticana, quelli di Firenze, Venezia e Napoli non sanno come fare; per la riproduzione poi debbono tutti ricorrere alla industria privata.Per ciò che riguarda le altre biblioteche, è necessario arrestare la confusione che paralizza molte di esse e procedere a una loro razionale classificazione, a cui tutte, col tempo e con le dovute cautele, dovrebbero venire ricondotte. Attualmente la maggior parte delle governative e delle grandi comunali sono costrette ad assolvere la triplice funzione di biblioteca di conservazione e civica, sacrario delle memorie locali; universitaria, per gli studenti; e di lettura, per tutti. Questa disparità di funzioni mentre ne limita l'efficienza, crea inconvenienti facilmente immaginabili e difficilmente evitabili. La distribuzione delle trentuno governative nella penisola è del tutto casuale; vaste aree ne sono prive. Esse sono servite complessivamente da poco più di cento bibliotecari, e con gli altri impiegati si arriva al numero di quattrocento (la sola Biblioteca Lenin di Mosca ne ha più di ottocento). I bibliotecari vengono in Italia o esaltati come umili asceti della erudizione e generosi dispensatori della scienza bibliografica, ovvero dileggiati come pigri «pennajuoli». Raramente si pensa che quella del bibliotecario costituisce una professione degna e utile al pari di tante altre, ma che non può convenientemente esercitarsi ove manchino gli strumenti adatti e un minimo di considerazione. (Forse tenendo presente l'aforisma «Il bibliotecario che legge è perduto» è stata ai bibliotecari negata l'indennità di studio, concessa ai maestri elementari). Il bibliotecario non è più oggi l'erudito semienciclopedico d'un tempo, ma è un funzionario e semmai uno specialista in un particolare rame della scienza
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bibliografica. Lentezza e povertà della carriera, complessità delle attribuzioni e delle responsabilità, miseria degl'istituti loro affidati, tengono lontani da questa professione - che all'estero è assai stimata e incoraggiata - tanti ottimi giovani che pure avrebbero inclinazione a essa. A formare, inoltre, le nuove leve di bibliotecari mancano le apposite cattedre e scuole di perfezionamento così diffuse in altri paesi; esistono soltanto «incarichi» in alcune università. Dannosa fu infine l'abolizione della distinzione, che un tempo v'era, del ruolo tra bibliotecari e conservatori di manoscritti: distinzione che, con denominazione diversa o senza alcuna denominazione, esiste dappertutto, a cominciare dalla Biblioteca Vaticana, dove le mansioni del bibliotecario nulla hanno a che vedere con quelle dello «scrittore» dei codici.Le biblioteche che non appartengono allo Stato, ma ai Comuni e alle Provincie, sono anch'esse distribuite in modo non uniforme sul suolo nazionale. Alcune per importanza uguagliano e superano le minori governative; soffrono in genere dei loro stessi mali; ma dato il differente interessamento delle amministrazioni vi sono enormi disparità, soprattutto tra nord e sud.
Una razionale classificazione delle pubbliche biblioteche, secondo quanto già accennato, potrebb'essere la seguente:
a) biblioteche di conservazione, con fondi antichi e materiale moderno di consultazione per lo studio dei manoscritti e delle antiche edizioni. Queste biblioteche, di proprietà dello Stato o di altri enti, dovrebbero raccogliere l'antico materiale librario, soprattutto appartenente a fondi ex conventuali, che giace ancora disperso ed esposto a pericoli di ogni genere nei minori centri di provincia. Le biblioteche di questo tipo esigerebbero uno scelto personale, esperto negli studi paleografici e bibliografici, capace di riprendere quei lavori eruditi, nei quali stiamo perdendo tanto terreno. La intensificazione della catalogazione a stampa dei fondi di manoscritti, fatta con criteri uniformi, costituirebbe uno dei primi di tali lavori. È ovvio che le biblioteche di conservazione non vanno concepite come «pubbliche» nel senso più esteso della parola: non lo sono infatti all'estero, mentre purtroppo sono costrette finora a esserlo da noi, con danno delle loro raccolte.
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b) Moderne biblioteche specializzate, di tipo universitario: umanistiche, scientifiche, tecniche. Le undici Universitarie governative hanno, come la maggior parte delle altre d'antica fondazione (la più recente Universitaria, quella di Napoli, fu fondata nel 1812), un originario carattere enciclopedico, che per ovvie ragioni non possono più mantenere: per cui seguono oggi un indirizzo prevalentemente letterario o scientifico. Tanto varrebbe che, a prescindere dai loro antichi fondi (per i quali esse rientrano nel tipo «di conservazione» piuttosto che in quello universitario) se ne limitasse ufficialmente l'estensione, si considerassero, come i loro direttori auspicano, «governative» indipendenti dalle università, e si desse maggiore importanza alle biblioteche di facoltà, che in Italia hanno, forse più ancora delle Universitarie, concrete possibilità di sviluppo. Non è raro il caso, infatti, che quelle giovani biblioteche dispongano di una dotazione per acquisto di libri superiore a quella delle stesse Universitarie. Molta economia anche in questo settore si potrebbe realizzare dal coordinamento negli acquisti e addirittura dalla fusione delle varie raccolte formatesi presso i vari istituti universitari, seminari, scuole e gabinetti, nelle quali si disperde come in tanti piccoli rivoli il patrimonio comune, giacché esse, mentre mancano di opere fondamentali, sono spesso abbonate ai medesimi periodici e collezioni, anche assai costose.19 Non c'è dubbio che sarebbe di grande utilità un tale coordinamento, o piuttosto fusione, contrastando la tendenza generale dei docenti universitari a formarsi delle bibliotechine speciali.
c) Biblioteche «per tutti», o di cultura generale, o di lettura, o come altro si vogliano chiamare. Si suole ripetere che gl'italiani non leggono e che frequentano scarsamente le biblioteche; ma quali biblioteche abbiamo per un pubblico che conti qualche cosa nelle statistiche? I pochi coraggiosi esperimenti fatti qua e là, dal successo ottenuto confermano che qualora il tipo della moderna biblioteca di cultura generale, vera stazione di rifornimento intellettuale alla
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portata di tutti, esistesse, non avrebbe forse bisogno per essere ricercato e amato di quelle studiate forme di propaganda a cui ricorrono certe biblioteche anglosassoni. Solo eccezionalmente si potrebbe consentire che un tale servizio fosse disimpegnato da biblioteche «storiche». C'è ad es. in Firenze una governativa, la Marucelliana, che per un insieme di fortunate circostanze si avvicina, pur essendo antica, al tipo della biblioteca che auspichiamo. Ebbene, la Marucelliana per numero di lettori supera ogni altra d'Italia, se si eccettuino la Nazionale, e forse l'Universitaria, di Roma.Si parla e si scrive tanto, da anni, della crisi del libro, ma non si pensa che se le biblioteche fossero assai più numerose e in grado di acquistar libri, verrebbero incontro in misura notevole alla crisi dell'editoria, sia direttamente, sia indirettamente alimentando nel popolo l'amore alla lettura. È così poco vero che le biblioteche diminuiscono il numero dei privati acquirenti (questo timore è stato espresso da alcuni editori), che furono sempre i topi di biblioteca i più appassionati bibliofili. Ed è così vero che esistono in Italia moltitudini anche illetterate di lettori «in potenza», che l'amore della lettura, oggi abbandonato a se stesso, si va corrompendo coi romanzacci e i giornali «a fumetti», i quali si moltiplicano in modo impressionante e hanno tirature spaventose. Prima che il gusto del leggere sia irrimediabilmente depravato, occorre provvedere, mettendo a disposizione del popolo milioni e milioni di libri in biblioteche attraenti. In quale modo si può pensare di far questo? Con quali mezzi?
Le biblioteche destinate a colmare il vuoto o a sostituire le indecorose «popolari» dovrebbero essere amministrativamente autonome, con sede propria costruita secondo i dettami della moderna biblioteconomia, con orari estesissimi di apertura (comprese le domeniche), con cataloghi semplici e aggiornati: biblioteche liberali nei prestiti, con reparti per ragazzi, servite da impiegati che abbiano frequentato speciali corsi e sentano la nobiltà, l'importanza della missione educativa che viene loro affidata.
Il finanziamento di queste moderne biblioteche, presenti dovunque e integrate, per i più piccoli centri sperduti, da bibliotechine autotrasportate, deve gravare sui cittadini
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mediante una lieve imposta comunale proporzionale al reddito, come appunto avviene in quei paesi - Inghilterra, Stati Uniti, Cecoslovacchia, Belgio, Paesi Scandinavi, ecc. - dove il sistema è stato adottato con risultati eccellenti. Constatiamo con piacere che quest'idea della imposta - l'unica che permetta di risolvere il problema - si va affermando anche da noi: in alcuni recenti congressi essa è stata caldeggiata in acclamati ordini del giorno. Allo Stato spetterà il superiore controllo di queste, come di tutte le altre biblioteche, per mezzo dei suoi organi tecnici centrali e periferici, che sono l'ispettorato e le Soprintendenze bibliografiche: uffici che non renderanno mai abbastanza finché non saranno forniti di mezzi adeguati all'importanza delle loro funzioni e, come la maggior parte dei bibliotecari auspicano, resi indipendenti dalle direzioni delle biblioteche governative. Non è infatti concepibile che i capi delle maggiori, più onerose biblioteche nazionali o universitarie, siano gravati contemporaneamente da altro ufficio, già di per sé bastante ad assorbire l'attività di un funzionario.Un dubbio è stato affacciato da alcuni: che le auspicate biblioteche di cultura generale, premature quando il popolo ignorava ancora l'alfabeto, siano oggi da considerare superate, nel senso che quella missione secondatrice e fecondatrice dei bisogni intellettuali del popolo sia oggi adempiuta, meglio che dal libro, dai più rapidi, efficaci e attraenti mezzi di diffusione delle umane cognizioni: giornale, teatro, cinema, radio, turismo ecc. Per accorgersi quanto un tale timore sia infondato basta riflettere che in paesi dove cinema, turismo e radio sono più diffusi che da noi, anche le biblioteche pubbliche sono più numerose e affollate.
Se si voglia lavorare utilmente per le biblioteche, e quindi per la cultura, è necessario sollevarne il problema generale nei suoi aspetti sociali e politici, lanciarlo e imporlo al Governo attraverso l'opinione pubblica. Solo da questo lato si può sperare di ottenere un riconoscimento della sua importanza. I bibliotecari hanno molto meditato e discusso sulle deficienze dei loro istituti e sui modi migliori per rimediarvi: il terreno è preparato. Ma perché l'esperienza di pochi non si perda, e la loro voce non rimanga inascoltata come in passato, è necessario che si desti l'interessamento della più
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vasta cerchia degli studiosi, degli educatori e in genere delle persone colte, e sorga una diffusa, acuta coscienza del problema. Una riforma delle biblioteche non può nascere che in seguito al crearsi intorno a esse di una vivace opinione pubblica e al suo maturarsi attraverso discussioni e polemiche a cui partecipino tutti coloro che soffrono l'umiliazione dell'attuale stato di cose. È necessario che intorno alle biblioteche si formi un alone d'interessamento e si eserciti un poco di quello spirito d'iniziativa e d'intraprendenza che si esplicano in tanti altri campi assai meno nobili. Nella speranza di contribuire al nascere di tale interessamento abbiamo cercato di gettare le basi di quella discussione, che ci auguriamo di veder presto sorgere su questo tema, così vitale per le sorti della cultura italiana.1 P. Nalli, Le Biblioteche italiane, in Problemi italiani, II (1923), fasc. 16°, p. 250.
2 «In Modena Fischer (p. 343 seg.) udì esprimere da Muratori il rammarico che i principi italiani avessero perduto ogni amore alle arti e alle scienze e che nelle biblioteche si trovassero soltanto le reliquiae di quelle degli antenati». A. Bömer in Milkau-Leyh, Handb. der Bibliothekswissenschaft, III (Leipzig, 1940), p. 444.
3 Nalli, op. cit., pp. 254-57.
4 In Rivista delle Biblioteche e degli Archivi, XVI (1905), p. 119.
5 L. de Gregori, Le Biblioteche, nel vol. Dal regno all'impero pubbl. dall'Accad. dei Lincei (Roma, 1937), p. 560.
6 Troppo esclusiva ci sembra l'affermazione del Predeek (in Milkau- Leyh, op. cit., p. 856), che l'istituzione e lo sviluppo delle biblioteche pubbliche inglesi si debba, diversamente che nei paesi del continente, non allo Stato ma all'iniziativa di privati, di corporazioni e di mecenati. Senza togliere nulla all'importanza di tale iniziativa bisogna ricordare che fu in seguito a una legge votata dal Parlamento, e fortemente contrastata, che quel grande sviluppo fu possibile.
7 L'importanza dei lavori di catalogazione dei manoscritti delle nostre biblioteche è stata riconosciuta dai bibliotecari tedeschi: «In questo campo l'Italia è notevolmente superiore alla Germania». J. Vorstius in Milkau-Leyh, op. cit., p. 1007.
8 D. Gnoli, in Per una riforma nell'uso pubblico delle maggiori biblioteche. Documenti raccolti a cura della Società Bibliografica italiana (Milano, 1903), p. 11.
9 In Rivista delle Biblioteche e degli Archivi, XVIII (1907), p. 77.
10 Nalli, op. cit., p. 261. Attualmente esse rappresentano poco più del 0,50%.
11 Le biblioteche e i loro bisogni più urgenti, in Rivista delle Biblioteche e degli Archivi, XVIII (1907), p. 85.
12 Vedi F. Barberi, Biblioteche e cultura popolare nel Mezzogiorno d'Italia, in Atti del I Congresso nazionale della cultura popolare, Firenze 15-18 ottobre 1947 (Milano, 1948), pp. 66-75.
13 Un'abbondante documentazione dell'attività svolta dalla Direzione generale delle Accademie e Biblioteche in questo periodo è nei due volumi pubblicati dallo stesso Ministero: Le Accademie e le Biblioteche d'Italia nel sessennio 1926-27 - 1931-32 (Roma, 1933), e Le Biblioteche d'Italia dal 1932 al 1940 (Roma, 1942).
14 Un cenno sommario e indicazioni bibliografiche in J. Vorstius (Milkau-Leyh, op. cit., pp. 1021-25). Un elenco delle maggiori biblioteche dell'U.R.S.S. trovasi nella British Universities Encyclopaedia, vol. XII, pp. 345-70.
15 Vedi F. Ascarelli, Le biblioteche italiane e la guerra, in Rivista storica italiana, LX (1948), pp. 177-82.
16 G. Pasquali, Libri stranieri, biblioteche nostrane e altro, in Belfagor, IV (1949), pp. 115-18.
17 F. Barberi, Speranze per la Biblioteca Nazionale In Giorn. d'Italia, 2 Marzo 1949.
18 Un tentativo, intrapreso due anni fa da un gruppo industriale d'intesa col Ministero della pubblica istruzione, di affrontare l'arduo compito della catalogazione centrale, è fallito miseramente.
19 Si verifica talvolta il caso di cinque, dieci, perfino quindici esemplari dello stesso periodico acquistati da diversi istituti della medesima facoltà. Ciò accade soprattutto nelle facoltà di medicina.
Fonte: Francesco Barberi, Le biblioteche, una crisi secolare, (Problemi italiani), «Società», 5 (1949), n.1, p. 74-97.
La trascrizione segnala la divisione delle pagine e rispetta ortografia e maiuscole dell'originale, salvo la correzione di alcuni refusi e interventi grafici minori (l'uniformazione dell'accento acuto in perché e parole analoghe). Le note sono state numerate progressivamente.