di Luigi Crocetti
Non è detto che
una forza a lungo raggio d'azione
sia più importante di una a breve raggio d'azione: per definizione un criterio di importanza è criterio antropomorfo TULLIO REGGE, Infinito |
Se dovessi prevenire tutte le obbiezioni a ciò che mi accingo a dire, lo spazio oggi assegnatomi non sarebbe sufficiente. Basti dire che, per intrinseca incompetenza di chi vi parla, di scienza si parlerà poco o niente; e, insieme, che non una delle affermazioni che farò è esente da eccezioni, com'è proprio d'ogni discorso generale e generalizzante. È da preferire, in casi come questo, il silenzio? Ne sutor supra crepidam. Può darsi, e il vostro ascoltare sarà allora un gesto di cortesia.
Non c'è dubbio che una visione migliore e più coerente si otterrebbe allargando l'immagine, e sostituendo a quell'italiana del novecento del titolo un'espressione come dell'Italia unita. Troppo intensa è la continuità degli ultimi quarant'anni dell'ottocento con gli anni successivi, troppi i prolungamenti dei primi nei secondi, perché si possa operare un taglio netto. Ma questo sarebbe da dire d'ogni esame secolare: sappiamo tutti l'arbitrarietà delle nostre abituali partizioni. E d'altra parte non si potrebbe negare che il passaggio da un secolo all'altro sia stato sentito, almeno da molti, come rottura, e l'etichetta novecentesca rimarcata e rivendicata; così come forse si avvia a essere sentito il passaggio dal secondo al terzo millennio. Per questa ragione ci sentiamo più giustificati nell'aver scelto la delimitazione secolare.
Quei giudizi di critici e storici, cui accennavo prima, sono talvolta di grande severità. Parecchi sono guidati dalla discriminante provincialismo/universalità. La cultura italiana non sarebbe mai riuscita a superare, nel suo complesso, l'angustia della provincia, della piccola patria, già così soffocanti - si dice - nel secolo scorso. L'etichetta, per questi critici, è applicabile quasi a chiunque abbia avuto la sfortuna di operare in Italia: positivisti tardottocenteschi e primonovecenteschi, decadenti, realisti, macchiaioli, futuristi, strapaesani, stracittadini e così via, per finire con gli ermetici. Non si può negare che per almeno un caso l'assunto appaia (d'istinto) ragionevole (mi riferisco proprio al movimento apparentemente più internazionalista e di fatto più esportato, con esiti fuori d'Italia di gran lunga migliori: il futurismo - intendo il letterario); ma l'etichettatura in blocco rischia di far passare come di seconda scelta merce di prima qualità. Che cos'è mai questo provincialismo? Nessuno l'ha mai saputo con esattezza: il termine è indefinibile e, come tutti gl'indefinibili, vuoto di senso. Dice Mario Soldati: "Se la vecchiaia consiste, talvolta, nel timore della vecchiaia, il provincialismo consiste quasi sempre nel timore del provincialismo e in una spasmodica cura di evitarlo". Se si allude alla piccolezza della nostra patria o delle nostre patrie, questa è indubitabile; ma se ne può trarre un senso? Forse si potrebbe dire che il provincialismo consiste nell'attribuire peso, importanza, a cose che su altra scala non hanno rilevanza o sono già state "superate". Può accadere, e può accadere dappertutto. Ma è veramente accaduto, in generale, nella cultura italiana del novecento? O non è forse questa una cultura ricchissima, dove si sono intrecciati motivi remoti e motivi anticipatori? E non è forse la caratteristica precipua della storia culturale italiana, di vivere contemporaneamente il proprio luogo e l'universalità? Solo per sommi esempi: i supremi pensieri pittorici del mondo venivano, nel quattrocento, dipinti in Arezzo; l'eleganza perfetta della fantasia apparteneva, nel cinquecento, a Ferrara. E i due geni dell'ottocento italiano, Leopardi e Verdi, sprigionano dalla provincia più profonda.
Si confonde la situazione col prodotto della situazione. L'isolamento italiano dopo l'unità è un dato di fatto. Un conglomerato privo di collanti che non fossero intellettuali e linguistici: così si poteva considerare la neonata Italia. E anche quei collanti li usava un'élite, una società di dotti che da secoli pensava, parlava e scriveva, diciamo così, per conto proprio, disputando per di più senza fine sulla lingua in cui esprimersi. Ma, dice Dionisotti, "un'altra frattura si aggiunse, incomparabilmente più grave [di quella linguistica], provocata dalla distruzione spiccia e senza compenso dello Stato della Chiesa e dalla riduzione del regno di Napoli a marca di confine di un impero continentale. Ne risultò un isolamento, al di sotto della Toscana, di mezza Italia, proprio di quella parte d'Italia che per la sua antica struttura unitaria poteva e doveva pesare sulla bilancia contro l'eccessivo frazionamento regionale e municipale dell'altra parte". Ma i risultati, artistici e culturali? Questa descritta da Dionisotti era la situazione, ma una situazione politica, economica, sociale, non culturale. I dotti disputavano sulla lingua da usare, ma questo non impediva loro d'intendersi (e, intendendosi, d'accapigliarsi). Il problema era, se mai, che la lingua italiana era lingua scritta e non lingua parlata. Ma la cultura italiana ha sempre travalicato l'angustia dei suoi confini fisici.
Direi, allora, che la costante e la peculiarità della cultura italiana sia stata e sia il policentrismo. Non abbiamo mai posseduto una vera capitale culturale, come sono o sono state Parigi o Londra. In certi periodi Roma o Milano possono essere state scambiate per tali; ma non erano che fenomeni d'inurbazione, per di più durati poco. L'essere capitale politica non ha significato per Firenze che un discusso e ormai tramontato primato linguistico (per essa sono stati più importanti, caso mai, i fuggevoli anni trenta di questo secolo, come effimera capitale dell'intelligencija italiana). Se questo sia un bene o un male, qui non importa: importa che sia così, e che il ritratto storico della cultura italiana non si adegui a nessun modello di altri paesi. Molte volte il provincialismo abita, invece che negli oggetti che ci propongono intellettuali e artisti, nella nostra mente e nel nostro gusto. Voglio fare due esempi.
Niente di più naturale che i leader culturali italiani, sopraggiunta l'unità, sentissero come primo il dovere di prestare la propria arte all'inveramento e rafforzamento di quella, vocati alla professione di vati nazionali. Nel ruolo si susseguirono o convissero Carducci, Pascoli e d'Annunzio. Con esiti vari, dal punto di vista dell'efficienza ed efficacia poetica; ma con atteggiamento, tolte le sottigliezze del secondo, in sostanza comune. Dei tre l'unico a prolungare per molti anni la propria esistenza in questo secolo è stato d'Annunzio; ma già dopo la prima guerra mondiale, e nonostante il suo persistente vitalismo, egli poteva considerarsi un sopravvissuto: un magnifico esempio di perizia tecnica e verbale, ma nulla di più. Ora, anche a parte d'Annunzio, la condanna della poesia, anzi della letteratura patriottica, è unanime, da un punto di vista contenutistico. Eppure ci sarebbe da riflettere: ci hanno abituati a giudicare con molto maggiore riguardo le formalmente inferiori poesie del Kipling "imperialista" (forse per la più profonda congruenza dell'oggetto con la sua celebrazione?). Non è questa paura di provincialismo?
Ma entriamo di più nel "secolo breve". Il novecento s'è aperto - all'"inizio esatto del secolo"- con le Tesi fondamentali di un'estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale di Benedetto Croce. Cominciava così la fondazione di un impero culturale (generatosi anch'esso in provincia) che sarebbe durato circa cinquant'anni. Di questo interessa qui uno degli effetti: l'eversione, da parte di un ex erudito, della cittadella degli eruditi, meglio se positivisti. Un effetto, probabilmente, non voluto nemmeno dal suo promotore, se all'inesauribile capacità di ricerca propria degli studiosi del tardo ottocento non si venne a sostituire, molto spesso, nulla che non fosse parola. Ora, l'erudizione era, senza dubbio, "locale", ma in quanto questa era la realtà italiana, di questa accompagnava il policentrismo: tanto da essere ricuperata, in pieno novecento (certo con altra consapevolezza metodologica), da un diverso rispetto. Anche qui, l'antiprovincialismo s'era convertito nel suo contrario.
L'idealismo ha dunque dominato la prima parte del secolo. Qualcuno preferirà dire storicismo idealistico; ma, ci avverte Antonio La Penna, ogni storicismo è idealistico. È stata una specie di dittatura intellettuale, contro la quale poco poté anche l'ostilità del fascismo (che del resto s'era appropriato, nella persona di Giovanni Gentile, d'una sua particolare versione, la cosiddetta attualistica), e che Gramsci, dalla sua prigione, sentì come l'avversario da battere. La seconda guerra mondiale ha poi fatto precipitare tutto; ma, prima di questa, io credo che i micromondi italiani fossero tornati in piena attività. Voglio fare solo due nomi: l'indicibilmente triestino, eppure austriaco, Svevo; e l'indicibilmente bolognese, eppure europeo, Morandi. Ma, se usciamo dalle arti, troviamo qualcosa di ancor più interessante. Dopo molte premesse, che qui è impossibile anche solo riassumere, fin dagli anni trenta giungeva a maturazione perfetta il lungamente incubato nuovo fare filologico italiano, la nuova "filologia nazionale", se del 1934 sono la prima edizione di Storia della tradizione e critica del testo di Giorgio Pasquali e la prima serie dei Problemi di critica dantesca di Michele Barbi. Arriverà presto un annus mirabilis per la filologia e la critica: il 1939, anno altrimenti fatale per il mondo, ce le faceva conoscere per la prima volta intrinseche e immedesimate in un'unica persona, con l'edizione delle Rime di Dante e gli Esercizi di lettura di Gianfranco Contini. Nella fusione di lettere, filologia e linguistica (scienze, queste ultime due) si compiva un'evoluzione destinata a modificare profondamente la seconda metà del secolo. Ma vorrei usare parole di Contini stesso. Contini sta parlando di Croce, ma non dubito che qui si riferisca non solo a Croce, ma a un'intera età, così come non dubito che stia parlando (non è inevitabile?) anche di sé stesso: "È nel mutamento della cultura complessiva di questo secolo (e non nella sola diversità dei sentimenti coltivati, in ogni caso non nelle psicologisticissime ribellioni dell'irrazionalismo letterario) che si ritrova il tanto cercato 'superamento': superamento della filosofia crociana, qualunque sia la capacità professionale degli specialisti di filosofia, solo in quanto superamento della cultura crociana, di tipo tradizionale". Mutamento della cultura complessiva, dunque, e non vittoria di un sistema sull'altro, di una teologia sull'altra; una nuova cultura capace di comprendere "le cose", e non solo lo spirito. La singolare unione di sensibilità e scienze (se non osiamo addirittura accoppiare a queste il decadentismo) è chiara in queste altre parole continiane, a proposito della critica: "Eppure la critica stilistica è oggi la sola viva: di dove viene la sua cultura [...] se non dall'amore 'decadente' alle lettere [...] e dalla pratica della filologia e della linguistica come 'scienze' [...]?"
Questa nuova cultura, di cui fanno o hanno fatto parte le sottotendenze più svariate (incluso, obtorto collo, la marxista italiana del secondo dopoguerra) è quella, credo, in cui ci possiamo ancora riconoscere: in ogni modo la sola che ci appare ancora fertile e seminabile. Il policentrismo italiano è stato per essa un dato di fatto; nel suo ambiente si è data anche l'apparentemente curiosa (in tempi di decadenza dei dialetti) reviviscenza della letteratura dialettale, specialmente poetica, certo dovuta a una nuova attenzione "filologica".
Il policentrismo sarà dunque da assumere a canone precipuo della nostra cultura. Riconoscerlo è, credo, riconoscere un dato di fatto. E, senza trarne deduzioni incongrue, poiché le due cose stanno su piani di riflessione del tutto differenti, certo è che col policentrismo consuona l'altra nostra costante, il plurilinguismo, la quasi categoria dello spirito scoperta da Gianfranco Contini e che, con andamento carsico, scorre per tutta la nostra storia, da Dante a Gadda, parallelamente al sublime monolinguismo inaugurato da Petrarca. Il valore delle tessere di un mosaico è uniforme. Il valore della tradizione italiana in questo secolo è qui.
* * *
Non rimpiangeremo mai abbastanza che la proposta fatta a Emanuele Casamassima, di contribuire con un saggio sulle biblioteche alla grande Storia d'Italia che l'editore Einaudi aveva in preparazione, non si sia attuata. (E così l'eccellente saggio sugli archivi, di Piero D'Angiolini e Claudio Pavone, è rimasto, in quella Storia, senza il suo ideale compagno). Non ho mai saputo perché. Indubitabile è che, se quel saggio fosse stato scritto, oggi avremmo un sicuro punto di riferimento anche per il nostro discorso d'oggi, perché chi ne ha conosciuto il mancato autore non potrà negargli la profondità unica di riflessione sulle sorti delle biblioteche italiane e la lucidità di diagnosi. Ma è andata com'è andata, e cercheremo, non certo io ora (che ho solo la possibilità di fornirvi qualche motivo) ma voi subito dopo, di supplire alla dura assenza.
Il discorso non può non farsi di carattere pratico. Partiamo dalla convinzione che gl'istituti a noi cari, le biblioteche, debbano per loro natura essere profondamente immersi nel flusso culturale generale; della cultura generale debbano far parte. E che quando non sanno accompagnare, rappresentare e anche, in parte, generare questa manchino il loro fine. Ora, se dalla cultura generale volgiamo lo sguardo alle nostre biblioteche, credo non si possa fare a meno di notare una dissonanza o frattura. Le biblioteche italiane del nostro tempo stanno nella loro tradizione? E, prima di tutto, che cosa significa, qui, tradizione?
Non già il passato. Soltanto per i pigri intellettualmente, per i conformisti, tradizione e passato sono sinonimi. Al contrario, dev'essere lecito scegliere, combattere idealmente certi momenti del passato, se hanno conseguenze sul presente che giudichiamo inaccettabili. Cercare di definire i punti per noi caratteristici di una tradizione culturale è cercare di dipingere il nostro autoritratto. La tradizione delle biblioteche italiane è una tradizione di studi, di strettissima relazione con gli studi. I grandi bibliotecari italiani sono tutti stati bibliotecari-studiosi. Il sistema bibliotecario italiano del passato (di sistema qui si può parlare solo per metafora) è stato naturalmente, fisicamente, straordinariamente policentrico, e ha accompagnato e rappresentato degnamente le vicende culturali del territorio; ne è stato lo specchio (anche se, certo, l'automatismo del rispecchiamento non è totale, dipendendo esso da altri innumerevoli fattori, come i politici e i finanziari). È tuttora così? A me sembra che in un passato ormai non più vicinissimo ci sia stata una frattura, dapprima poco sensibile e via via aggravatasi. Quando? È difficile segnare una data, ma penso che sia possibile, grosso modo, indicare gli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale. Il fascismo fu anche una sconfitta della cultura, ma non si deve credere che la sua politica per le biblioteche, in generale, fosse solo oppressiva. Fu oppressiva per i bibliotecari; e trovò il migliore strumento per quest'oppressione proprio nell'azione di un intellettuale, quel Gentile già sopra ricordato. La cosiddetta riforma Gentile (del 1923) può essere assunta a segno del nefasto cambiamento, per ciò che riguarda i bibliotecari. Con essa i bibliotecari cambiavano status: i bibliotecari statali, s'intende, ma l'apparato delle biblioteche statali italiane è stato sempre, nel paese dopo l'unità, dominante ed esemplare; e il suo crollo avrebbe trascinato con sé tutto il resto. Da una categoria di alto profilo si passava a una categoria di semplici impiegati: nasceva la burocrazia bibliotecaria. Ma molto peggio ancora si sarebbe fatto in età democratica, e da parte di un altro intellettuale, Giovanni Spadolini. Nel testo del decreto del presidente della repubblica sull'organizzazione del ministero per i beni culturali e ambientali (del 1975), non s'infieriva più sui bibliotecari, ormai sistemati, ma sulle biblioteche, non vergognandosi di definirle "organi periferici del Ministero", ciò che non era stato immaginato neppure nei tempi della dittatura. Se ne ribadiva così la burocratizzazione. È sempre stupefacente per me che a questo non ci sia stato nemmeno un conato di resistenza organizzata. Forse non si è capito che con quell'iniqua e mostruosa definizione - tuttora in vigore - venivano attaccate le caratteristiche di policentrismo della galassia italiana; e insieme sancita la figura, già esistente ma sconosciuta fino al primo dopoguerra, del bibliotecario prostrato. Prostrato davanti a chi? Ma al ministro, figlio di Zeus; al sottosegretario, figlio di Apollo; al direttore generale, figlio di un dio minore. Questo è l'aspetto di sociologia spicciola. Ma più grave è la provocata sconnessione tra biblioteche e cultura (così come credo si possa dire per i musei). Può fare cultura un organo periferico del ministero?
Burocratizzazione e decadimento culturale dell'equipaggio hanno fatto sì che con sempre maggiore difficoltà le biblioteche italiane aderiscano alle necessità della cultura del paese. C'è anche la questione dei miserrimi stanziamenti, è vero; ma non credo che tutto risalga a questa. Si crea un'inerzia, un vuoto; e i vuoti, si sa, vengono riempiti. Il fenomeno, abbastanza recente, della creazione, a decine, di nuovi centri di conservazione - quelli non ancora definiti da un termine univoco, e che ora chiamerei, per intenderci, archivi letterari - nelle sedi più disparate, dalle aziende alle università, non significa anche questo? I nuovi archivi dobbiamo salutarli come fatto altamente positivo, di per sé, e parecchi di essi si sono ormai conquistata una funzione rilevante; e anch'essi, in qualche modo, ripetono le caratteristiche del policentrismo. Ma un policentrismo, diciamo così, un po' meno necessario, che non si sarebbe sovrapposto a quello, naturale e innato, delle nostre biblioteche se queste fossero state in grado di tener dietro alle loro funzioni. Che cosa hanno in più questi centri, per essere così attivi? Salvo un paio di eccezioni, non sono ricchi; ma non sono burocratizzati, e danno un notevole peso alla cultura di chi li guida e gestisce.
* * *
Riferirsi alla tradizione culturale italiana vorrà dire chiudersi, opporsi alla cooperazione, alla standardizzazione? Se pensiamo questo, andremo poco lontano. Pensare questo significa non distinguere fra tradizione culturale e tradizione biblioteconomica. Quest'ultima è come se non esistesse. La biblioteconomia italiana è ricca di passato e povera di tradizione. Anche il contributo di quei bibliotecari-studiosi di cui parlavo prima è stato tutto su un versante né tecnico né professionale (l'unico che sia stato capace di unire i due aspetti, cultura e tecnica, ha avuto la possibilità di farlo in Inghilterra). Nel campo strettamente professionale si sono avute, nella migliore delle ipotesi, rielaborazioni (con l'aggiunta di errori) di principi provenienti d'oltralpe e d'oltreoceano. Questo passato non ci suggerisce nulla, per i nostri bisogni d'oggi. La biblioteconomia non fa parte della cultura finché se ne mantiene divisa; e credere che il rispetto della tradizione le abbracci in tutti i casi entrambe è un'ingenuità. La biblioteconomia fornisce gli strumenti per maneggiare la cultura: è una disciplina tecnica, ma guai se i suoi principi cominciano a svilupparsi autonomamente, a dedursi l'uno dall'altro, senza tener conto dei cambiamenti culturali e delle necessità del pubblico. Una disciplina-ombrello è di per sé, per necessità funzionali, astorica; o, meglio, sempre e solo contemporanea all'età in cui agisce.
Perciò, cooperazione, unificazione
di metodi, di regole, sistemi, servizi nazionali, ricerca e raggiungimento
di un linguaggio unico non ledono in alcun caso la tradizione culturale,
che non riguarda la conservazione dell'intestazione Cicero, Marcus Tullius,
ma tutt'altre cose: come possono essere la costruzione delle raccolte,
la politica informativa, l'attività culturale della biblioteca,
il suo sostegno alla ricerca. Abbiamo ora strumenti potentissimi, che nessun
bibliotecario delle età passate ha avuto a disposizione; e mi sembra
che questi strumenti stiano insegnando molto, almeno ai bibliotecari delle
generazioni più giovani. Quando si ha a disposizione un cannone,
invece di una pistola, è inevitabile chiedersi se sia conveniente
adoperarlo contro le zanzare o se non convenga indirizzarne la mira a bersagli
più degni e anche, diciamolo pure, più ambiziosi.
Copyright
AIB 1998-05-06, ultimo aggiornamento 1999-02-08
a cura di Antonella De Robbio
e Marcello Busato
URL: https://www.aib.it/aib/sezioni/veneto/crocetti.htm