AIB Sicilia. Attività. Convegni
INFORMAZIONE E MARKETING DEI SERVIZI
Trapani, 3 giugno 2005 - ore 9.00
Sala conferenze della Provincia regionale
Palazzo Riccio di Morana - Via Garibaldi, 89
Maria Stella Rasetti
(Direttrice della Biblioteca comunale "Renato Fucini" di Empoli)
Trasparenza? Visibilità? Siamo ad un convegno di bibliotecari o non piuttosto ad una convention di venditori della Procter & Gamble? Non è che questa tizia sul palco - vi domanderete - adesso tira fuori dalla borsa un flacone di Vetril, lo spruzza sui vetri e comincia a lucidarli, per convincerci dell'efficacia del prodotto? Beh, potete stare tranquilli: non vi costringerò a comprare nessun pulitore universale per biblioteca.
I venditori della Procter & Gamble possono comunque darci una mano, perché nel loro ambiente circola una specie di proverbio che può tornare utile alla riflessione di oggi. Lo cito nella versione originale, un po' slang ma efficace: "Outta sight, outta mind, outta business", ovvero "lontano dallo sguardo, lontano dalla mente, lontano dagli affari": insomma, se si vuole avere successo nel proprio lavoro, bisogna farsi notare e farsi ricordare. Certo, avrei potuto anche evitare di scomodare gli americani: bastava citassi Sergio Endrigo. I meno giovani di noi se lo ricorderanno quando cantava "Lontano dagli occhi, lontano dal cuore".
La lezione è chiara: se vogliamo che la nostra biblioteca sia vicina al cuore dei cittadini (che decidono di utilizzarla o no) e degli amministratori (che decidono di sostenerla o no), dobbiamo avvicinarla ai loro occhi. Dobbiamo rendere visibili i suoi talenti, evidenziare le opportunità che offre, valorizzare il portafoglio servizi che è in grado di mettere a disposizione degli utenti, facendo risaltare con correttezza il valore aggiunto che essa produce nel trasformare un input più o meno ricco (personale, strutture, patrimonio) in un output di servizi capace di incidere fattivamente sulla qualità della vita di una comunità.
Come bibliotecari, siamo chiamati a misurarci ogni giorno con le conseguenze pratiche di un principio generale: che un cattivo servizio rimane tale anche quando è comunicato con maestria (ma c'è da domandarsi perché mai investire intelligenze sulle tecniche di emissione del fumo, invece di concentrarsi sulla cottura dell'arrosto), mentre un buon servizio perde una parte importante del proprio valore, se non è stato offerto all'attenzione dei suoi utilizzatori reali e potenziali in modo tale da essere chiaramente percepito come un'opportunità positiva.
Quando ricordiamo a noi stessi che non basta fare bene, ma che bisogna anche farlo sapere, non ci stiamo baloccando con un luogo comune, ma facciamo i conti con una verità tanto profonda quanto sofisticata: che la qualità è sempre "qualità percepita", con una dimensione soggettiva primaria, e non secondaria. Il valore di un servizio, prima ancora che nel rispetto di standard quantitativi, è riposto nel giudizio che nel tempo si sono fatti i suoi utilizzatori, a partire dall'insieme di esperienze individuali e soggettive che hanno accumulato su di esso.
Nello scarto tra attese e percezioni, il singolo cittadino matura il proprio giudizio sulla qualità della propria esperienza in biblioteca: [1] un'esperienza di cui ricercare repliche in futuro, in quanto connotata dalla piena soddisfazione di un bisogno di informazione, socialità, impiego del tempo libero, comunicazione, oppure un'esperienza da depennare dalla propria agenda, in quanto segnata da delusione, disagio, assenza di significato e utilità.
Noi non abbiamo il controllo sul processo di formazione dei giudizi da parte di chi usa o non usa la biblioteca: ogni singolo cittadino è titolare autonomo di una "idea di biblioteca" che può anche prescindere dall'effettiva offerta di servizio che siamo in grado di mettergli a disposizione. Chi è convinto di non trovarvi niente di buono non ne varcherà mai la soglia, per quanto ricca e differenziata sia la proposta informativa. Chi è rimasto toccato da una sfortunata serie di risposte negative, difficilmente muterà il segno della propria delusione, anche a fronte di successivi esiti più favorevoli.
Se l'espressione del giudizio di valore rimane appannaggio del singolo cittadino, è però vero che noi bibliotecari possiamo incidere in misura decisiva sullo scenario nel quale si formano tali giudizi, agendo in modo tale da indurne l'orientamento in senso positivo. Ed è qui che entrano in gioco le due parole d'ordine che ho collocato nel titolo del mio intervento: trasparenza e visibilità, due concetti che vanno a cogliere aspetti diversi, anche se interagenti, nella costruzione della reputazione della biblioteca.
Il primo, la trasparenza, [2] si riferisce alla scelta strategica di rileggere le soluzioni organizzative attuate nella quotidianità alla luce delle esigenze dei destinatari del servizio, accettando di metterle in discussione e modificarle tutte le volte che rispondono a logiche autoreferenziali o a situazioni superate dalla realtà in evoluzione. Lo scenario della trasparenza richiede al bibliotecario di gestire una transazione con l'utente non semplicemente limitandosi ad applicare con correttezza un regolamento "perché così sta scritto e così si è sempre fatto", ma mantenendo attivo un costante monitoraggio sull'adeguatezza di quel regolamento e di quella prassi alle esigenze del pubblico.
La biblioteca è chiamata a sviluppare sempre più la dimensione della learning organization, che ascolta la realtà circostante ed è disposta a modificare orientamenti, determinazioni operative, soluzioni organizzative per adeguarsi con umiltà, cura e flessibilità alla domanda del proprio pubblico. Regolamenti, disciplinari, limitazioni, modalità gestionali consolidate sono attrezzi di cui essa deve sapersi liberare quando non funzionano più e sono diventati vincoli artificiali ormai orfani del loro significato originario (se mai ne hanno avuto uno): sono dei tutori che ingessano le gambe della biblioteca, causando l'atrofizzazione dei muscoli e impedendole di camminare con scioltezza.
Il bibliotecario deve trovare il coraggio professionale di mettere costantemente in discussione le regole del gioco, puntando lo sguardo sulle ragioni della biblioteca come servizio pubblico e facendo di esse la stella polare della propria azione organizzativa, con l'intento di sgombrare il campo da tutto ciò che nella quotidianità lo allontana dal perseguire tali ragioni. Solo così riuscirà a condividere con gli utenti il significato "positivo" delle regole e delle limitazioni che inevitabilmente sono presenti in un contesto organizzativo segnato da scarsità di risorse umane, economiche e strumentali.
Essere trasparenti vuol dire essere disposti ad abbandonare la protezione e l'agio di chi non ritiene di essere chiamato a rispondere delle proprie azioni di fronte a nessuno; vuol dire sentirsi in dovere e prima ancora - badate bene - sentirsi in diritto di rendere conto pubblicamente di quanti record si sono catalogati, quanti prestiti si sono fatti, quante informazioni si sono fornite, quante transazioni sono andate a buon fine o hanno avuto esito negativo e perché; vuol dire ricercare nei cittadini i primi alleati potenziali per una battaglia a favore della crescita dei servizi, perché effettivamente si è in grado di dimostrare, nero su bianco, che con le risorse a nostra disposizione non si possono catalogare più record di quanti se ne siano effettivamente prodotti, o non si può davvero ampliare l'orario di apertura, strutturare diversamente un servizio, velocizzare ulteriormente le procedure di spesa o incrementare l'offerta informativa.
Una biblioteca trasparente è una biblioteca che ha imparato a dare il massimo e non si vergogna di mostrare che quel massimo non è mai abbastanza rispetto alle aspettative e alle esigenze degli utenti. È una biblioteca che ripulisce l'armadio dai suoi scheletri, che pone il back-office al servizio del front-office e non di se stesso, che non deve difendersi dalle accuse di spreco di pubblico denaro perché il denaro lo sta usando al meglio delle sue possibilità. È una biblioteca dove i bibliotecari si relazionano con fiducia con gli utenti, perché sono orgogliosi del lavoro che fanno e di come lo fanno.
E qui la dimensione di rete che abbiamo voluto dare alla riflessione di oggi ci obbliga a chiamare in nostro soccorso il chimico e agronomo belga Justus von Liebig, [3] il quale, oltre ad avere inventato il dado di carne che ancor oggi prende il suo nome, ha scoperto una legge di sviluppo degli organismi che risulta particolarmente utile anche nel nostro contesto professionale: la cosiddetta "Legge del Minimo", secondo la quale in un ecosistema la crescita di una popolazione è condizionata dal fattore presente in quantità minore, detto perciò "fattore limitante".
Nel delicato ecosistema rappresentato dalle dinamiche di costruzione e alimentazione della reputazione, qualunque sforzo di rinnovamento e miglioramento condotto da una biblioteca deve fare i conti non solo con gli ostacoli interni alla propria organizzazione, ma anche con l'effetto limitante derivato dalla presenza di altre biblioteche che funzionano poco e male.
Un vecchio slogan in voga prima della Legge Sirchia diceva: "Chi fuma fa male anche a te. Digli di smettere". Proviamo a riciclarlo a nostro vantaggio: chi gestisce con scarsa professionalità una biblioteca, chi non si pone in ascolto costante degli utenti, chi non sa o non vuole impiegare con rapidità ed efficacia le risorse a disposizione, chi lavora poco e male non si limita ad essere in debito personale verso il proprio datore di lavoro, e quindi verso la propria comunità, ma getta discredito su tutte le biblioteche e distrugge la reputazione di tutti i bibliotecari.
Mi viene da pensare che la vera linea di demarcazione all'interno della nostra comunità professionale non corra tanto tra "tipici" e "atipici", quanto piuttosto tra chi ha fatto propria la logica del servizio pubblico e chi invece considera il proprio impiego, più o meno garantito, come una forma di redistribuzione del reddito nazionale, senza rilevante contropartita in termini di prestazione. Io non ho dubbi: ho molta più paura di un collega felicemente nullafacente dell'assessore più ferocemente contrario a destinare risorse alla biblioteca [4] . Perché con l'assessore posso provare a discutere; posso tentare di mostrargli quanto un investimento aggiuntivo sulla biblioteca risulti utile alla crescita del suo consenso in città e gli permetta di acquisire maggiore visibilità agli occhi del proprio elettorato; [5] ma con il collega che si gode impunemente la sua sinecura, non c'è proprio storia.
E poiché qui siamo in un contesto di associazione professionale, dove "le ragioni della biblioteca" debbono essere anche "le ragioni dei bibliotecari", non credo di andare fuori tema nel sottolineare quanto anche una sola biblioteca mal gestita faccia danni alle biblioteche che funzionano bene, ricacciando indietro di cento passi ogni faticoso tentativo di sfuggire una volta per tutte all'immagine del magazzino vecchio e polveroso, abitato da un bibliotecario solitario e scontroso, dall'aria emaciata e burbera. Ci sentiamo punti sul vivo, e reagiamo con veemenza, tutte le volte che ci ritroviamo vittime di uno stereotipo: pensiamo ad esempio al vespaio suscitato su AIB-CUR dalla notizia dell'uscita sul mercato americano della bambolina bibliotecaria priva di qualunque allure.
Dobbiamo guardarci non dagli stereotipi, di per se stessi innocui, ma dai tanti appigli che gli stereotipi continuano ancora oggi a trovare nella realtà di tutti i giorni: è qui che vanno cercati i nemici che causano i danni peggiori alla reputazione della nostra professione e delle istituzioni nelle quali siamo impegnati. Qui agiscono indisturbati i "fattori minimi" che ci impediscono di decollare, ma continuano ad inchiodarci ogni volta a terra.
E invece abbiamo un profondo bisogno di volare: di riscoprire l'idealità del nostro lavoro, che sta tutta nel suo significato di libertà, espressività e emancipazione per la gente. Noi lavoriamo con una materia prima delicata e importante: l'informazione e la comunicazione, che sa scavare solchi di differenza più profondi e pericolosi di quanto facciano le diseguaglianze sociali ed economiche.
Oggi dobbiamo ritrovare l'orgoglio di fare la nostra parte dentro una istituzione pubblica che può rappresentare - e per fortuna in moltissimi casi già rappresenta - uno strumento reale di sostegno al miglioramento sociale di ogni persona, indipendentemente dal suo destino iniziale. Quando rilasciamo una tessera ad un nuovo iscritto, stiamo consegnando qualcosa di più prezioso di una Visa Supergold: diamo accesso a "un luogo di condivisione di una passione, una fonte di identità personale e collettiva, un connettore alle idee e agli altri; per i nuovi cittadini [la biblioteca] è un primo accesso alla società che li ha accolti; per tutti è una finestra aperta verso l'esterno, dalla quale fare il giro del mondo, ma rimanendo a casa propria" [6] .
La biblioteca è anche uno spazio civico, in grado di affermare la sua dimensione materiale, di contro alle comunità virtuali creatrici di significato e di condivisione di valori, ma senza il contatto e l'interazione tra le persone; è uno spazio di grande spessore qualitativo, per avere sostituito in tante aree degradate delle città ciò che un tempo era la strada tranquilla, con le vetrine davanti alle quali soffermarsi, i bar con i tavolini all'aperto, le panchine, e la gente che esce per incontrarsi e chiacchierare.
La biblioteca rappresenta l'ultimo spazio libero della città, né pubblico né privato, dove non si è costretti a consumare e a spendere per essere considerati ospiti graditi. [7]
È questo lo spazio che noi dobbiamo rendere visibile, attraverso una costante, continua, incessante, sistematica azione di comunicazione. La democrazia ha bisogno di spazi di questo genere; ma bisogna domandarsi se oggi nel nostro Paese le biblioteche guardano a se stesse come organizzazioni di comunità, ove staff e utenti lavorano dalla stessa parte del tavolo, e se sono davvero aperte a tutti, ricercando sistematicamente il contatto con i non utenti. Bisogna domandarsi se intendono essere in modo trasparente e completo al servizio del loro pubblico, invece di limitarsi a rispondere, con maggiore o minore efficacia, con maggiore o minore celerità, ad un'istanza che un cittadino ha trovato il coraggio di accompagnare attraverso mille filtri, superando mille ostacoli e non arrendendosi di fronte a mille divieti.
La biblioteca degli ostacoli e dei divieti, quella che mi piace chiamare "la biblioteca per sé", vogliamo cancellarla con forza e per sempre dal nostro scenario professionale, nel quale sappiamo di poter fare la differenza, un giorno dopo l'altro, facendo al meglio il nostro lavoro di organizzatori e gestori dell'informazione e della comunicazione all'interno della nostra comunità locale.
C'è chi dice che il nostro è un lavoro come tanti altri; che bisogna guardarsi da chi scambia la propria "mission" per missione. Parafrasando Brecht, si potrebbe dire "Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi bibliotecari". Può darsi che ci sia del giusto nel richiamo al basso profilo: la storia ci ha insegnato a diffidare di chi arde del fuoco sacro.
Nel mio caso, forse non si tratta di fuoco sacro bibliotecario; ma dopo quasi vent'anni di lavoro, mi sorprendo ancora ad emozionarmi quando, attraversando le sale della mia biblioteca, trovo signore con il passeggino accanto ad austeri studiosi, ragazzi brufolosi immersi nella "Gazzetta dello Sport", adolescenti in estasi davanti allo schermo con l'ultimo film di Di Caprio, gruppetti di giovani cinesi intenti a far scorte di libri nella loro lingua, giusto per non perdere i contatti con un pezzo di vita lasciato dall'altra parte del mondo; e poi ancora fidanzati mano nella mano, nonne coi nipotini vocianti carichi di "Arcobaleni" e di "Pokemon", signore in coda al banco del prestito con una pila di Danielle Steel da restituire, giovani dall'aria assorta davanti ai PC perennemente occupati. Mi sorprendo ad emozionarmi di fronte alla biblioteca sempre piena di persone e mi dico: Ecco, noi siamo qui per loro. Siamo qui a fare la differenza per loro. Basta guardarli negli occhi quando salutano e tornano a casa, per capire che - signori miei - vale proprio la pena fare questo lavoro.
Note
[1] B. Joseph PINE II-James H. GILMORE, L'economia delle esperienze. Oltre il servizio. Milano, Etas, 2000.
[2] Maria Stella RASETTI, La biblioteca trasparente. L'istruzione all'utenza come strategia organizzativa. Pisa, ETS, 2004.
[3] Per una prima informazione sulla "Legge del minimo" di Liebig, si vedano le notizie riportate all'indirizzo http://endler.altervista.org/liebig.htm.
[4] Mi corre l'obbligo di ricordare, con non poco sollievo, di avere avuto la fortuna di non aver mai dovuto fare i conti né con gli uni né con gli altri.
[5] Maria Stella RASETTI, La biblioteca e il Principe. Cimenti e strategie della comunicazione con gli stakeholders politici. "Biblioteche oggi", 19 (2001), 7, p. 60-68 (ripubbl. anche in Comunicare la biblioteca. Nuove strategie di marketing e modelli di interazione, a cura di Ornella Foglieni. Milano, Bibliografica, 2002, p. 98-112).
[6] Maria Stella RASETTI, Aggiungi un posto a tavola. Condividere la biblioteca con la città, in La biblioteca condivisa. Strategie di rete e nuovi modelli di cooperazione, a cura di Ornella Foglieni. Milano, Bibliografica, 2004, p. 178.
[7] Maria Stella RASETTI, Aggiunti un posto a tavola, cit., p. 179 (testo ripreso con varianti).
Copyright AIB 2006-05-22, ultimo aggiornamento 2006-05-22 a cura di Domenico Ciccarello
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