This article examines the main objective and subjective aspects traceable in the concepts of information, document, knowledge, knowledge organization and level of reality. The hypothesis of the author is that objective and subjective aspects are both present in each of these entities, as it is sometimes implicitly recognized even by some of the authors that usually underline particularly the objective or the subjective aspects of these entities.
Ermanno Cavazzoni, Il pensatore solitario,
Parma, Guanda, 2015, p. 150
Oggettività e soggettività sono i due poli di una contrapposizione che attraversa pressoché ogni aspetto dell'esperienza umana (Nagel 1979). Non fa eccezione a tale pervasività il campo dell'organizzazione della conoscenza, nel quale talvolta si scontrano (soprattutto a livello teoretico) e più spesso si incontrano (a livello pratico) istanze che sottolineano come il modo in cui organizziamo informazioni, documenti e conoscenze dipende in gran parte dal nostro modo di vederli e di utilizzarli con altre che invece insistono su un certo grado di indipendenza e "resistenza" di tali entità rispetto a punti di vista e scopi. Prima di affrontare tale argomento sarà però utile premettere qualche considerazione sulla dialettica oggettivo/soggettivo applicata ai concetti di informazione, documento e conoscenza.
Fra il 2005 e il 2011 si è svolta, sulle pagine di alcune importanti riviste internazionali di scienze dell'informazione, un'accesa polemica fra Marcia J. Bates (2005, 2006, 2011), docente di information studies presso la Graduate school of education and information studies dell'Università di Los Angeles e Birger Hjørland (2007, 2009, 2011), docente di knowledge organization presso la Royal school of library and information science di Copenaghen.
Argomento del contendere era il concetto di informazione, rispetto al quale Bates considerava già rilevante qualsiasi "pattern di organizzazione di materia e energia" (Bates 2005), ovvero qualsiasi disposizione, sequenza o configurazione – anche casuale – di elementi fisici [2] (come ad esempio la disposizione dei ciottoli su una spiaggia o quella dell'inchiostro su una pagina), mentre Hjørland sottolineava l'insensatezza di considerare vera e propria informazione ciò che – rimanendo al mero livello fisico – non può informare su alcunché finché non esiste un organismo biologico in grado di essere informato, ovvero di acquisire una qualche forma di conoscenza esaminando i pattern in questione.
Tale contrapposizione è però probabilmente superabile da quegli approcci unitari (Hofkirchner 2010, Gnoli - Ridi 2014) ai vari significati del termine "informazione" che preferiscono chiamare "dati", "configurazioni", "atomi informativi" o "informazione potenziale" le informazioni esclusivamente sintattiche rappresentate dai pattern e denominare invece "dati contestualizzati", "dati significativi" o "informazione attuale" le informazioni semantiche che emergono quando i pattern entrano in relazione con un organismo, ponendole in un reciproco rapporto dialettico (Ridi 2010, p. 3-6).
In fondo, utilizzando il linguaggio di Hjørland (2007, p. 1449) – che a sua volta si rifà alla tanto classica quanto ambigua definizione di Bateson (1971, p. 346) dell'informazione "come una differenza che fa differenza" – l'approccio oggettivistico, secondo il quale "qualsiasi differenza è informazione", e quello soggettivistico, per cui "l'informazione è una differenza che fa differenza (per qualcuno o per qualcosa o da un punto di vista)", piuttosto che in rapporto di reciproca negazione possono più plausibilmente essere visti come due stadi successivi di un medesimo processo, sia logico che cronologico (Hofkirchner 2010, p. 85-97).
D'altronde la stessa Bates ammette che "l'informazione esiste sia soggettivamente che oggettivamente" (Bates 2015), che il suo lavoro "contiene idee che per lo più completano quelle di Hjørland, piuttosto che confliggere con esse" (Bates 2011, p. 2038) e che "gli animali percepiscono dati, non informazioni" (Bates 2005), tanto da porre l'informazione intesa come "pattern di organizzazione di materia e energia" (Bates 2005) alla base di una piramide dei vari significati del termine "informazione" desunta da Goonatilake (1991) che prevede anche i successivi gradini, semanticamente più ricchi, dell'informazione genetica, neuroculturale ed esosomatica (Bates 2006).
E lo stesso Hjørland, pur assegnando la massima importanza agli aspetti soggettivi e al contesto sociale dell'informazione, certamente non sostiene che essa venga creata ex nihilo da ciascun organismo in modo totalmente interno e autonomo (ovvero, potremmo quasi dire, "onirico" o "allucinatorio"), tant'è vero che nei numerosi lavori (fra cui Hjørland - Albrechtsen 1995, Hjørland - Hartel 2003 e Hjørland 2010) che ha dedicato ai vari "domini di conoscenza" in cui si articola la società umana ne ha teorizzato la strutturazione non solo in una dimensione epistemologica e in una sociologica, ma anche in una, altrettanto importante, ontologica, che riguarda l'oggettività tanto dei fenomeni conosciuti che dei documenti che ne trattano. E ha addirittura pubblicato un articolo in favore degli "argomenti a favore del realismo filosofico nella scienza della biblioteca e dell'informazione", in cui si raccomanda di "non confondere la realtà con le credenze o le preferenze degli utenti" (Hjørland 2004, p. 499).
Così come la discussione fra Bates e Hjørland è stata utilizzata per esemplificare quella – più ampia – fra i sostenitori, rispettivamente, dell'oggettività o della soggettività dell'informazione, allo stesso modo il dibattito a distanza pubblicato nel
primo numero del 2012 di "Bibliotime" può servire a sintetizzare l'analoga contrapposizione rintracciabile in letteratura riguardo alla natura degli oggetti materiali che "contengono" o "veicolano" le informazioni, ovvero i documenti.In tale occasione Claudio Gnoli (Università di Pavia), Paola Rescigno (Università di Bologna), Riccardo Ridi (Università Ca' Foscari di Venezia) e Alberto Salarelli (Università di Parma), partendo dalle varie definizioni di "documento" raccolte e commentate da Buckland (1997), si sono chiesti se il fatto che un determinato oggetto fisico venga legittimamente considerato un documento dipenda (esclusivamente o prevalentemente) da certe sue caratteristiche oggettive (come ad esempio il fatto di contenere del DNA o dei segni alfabetici) o da certe decisioni sociali (come ad esempio il fatto che un essere umano abbia deciso di usarlo per diffondere delle informazioni o che un museo abbia deciso di accoglierlo nelle sue collezioni) o ancora dalla capacità soggettiva di singoli individui di estrarne comunque delle informazioni registratevi magari anche involontariamente (come può succedere a chi esamina un fossile o la scena di un crimine).
Nel rispondere a tali dubbi ciascuno dei partecipanti al dibattito ha sottolineato gli aspetti per lui o per lei prevalenti o che si ritenevano talvolta sottovalutati, ricordando ad esempio come solo gli oggetti appositamente creati o modificati dagli esseri umani con finalità informative o comunicative siano i veri e propri "documenti nativi" (Gnoli 2012a), come la "potenza costitutiva dei luoghi" (Rescigno 2012) deputati alla selezione, conservazione, organizzazione e fruizione dei documenti (archivi, biblioteche, musei) giochi un ruolo importante nella loro definizione e identificazione, come "innanzitutto sia la dimensione individuale a dover essere tenuta in conto nell'interpretazione degli oggetti che popolano il mondo" (Salarelli 2012) e come si possa distinguere fra "documenti intenzionali" e "documenti non intenzionali" (Ridi 2012), categorie separate però solo da un confine socialmente e individualmente plasmabile, e quindi mobile.
Nessuno dei partecipanti si è però spinto fino al punto di negare decisamente la rilevanza di almeno alcuni aspetti rispettivamente oggettivi, soggettivi o sociali nell'individuazione dei documenti. E, rileggendo oggi la discussione, si può anche notare come essa abbia fatto emergere che, paradossalmente, i documenti più indiscutibilmente oggettivi, prodotti dalla natura già molto tempo prima che gli umani abitassero la Terra (come gli anelli di accrescimento stagionale degli alberi e il DNA), vengono spesso riconosciuti come tali solo a seguito di scoperte sociali o individuali [3], mentre, altrettanto paradossalmente, sono documenti indiscutibilmente "nativi" e "intenzionali" creati dagli umani – e quindi in un certo senso soggettivi – come i libri e i quadri quelli che da maggior tempo e in maggior misura vengono universalmente considerati tali e vengono quindi inclusi nelle raccolte di archivi, biblioteche e musei.
Si può infine notare come la stessa gradazione logica (e talvolta anche cronologica) riscontrabile fra l'informazione sintattica (cioè i dati) e l'informazione semantica (cioè la conoscenza) può essere riscontrata anche nei documenti. Qualsiasi oggetto fisico è potenzialmente (cioè filosoficamente) un documento, purché includa (o sia incluso in) un pattern che segni "una differenza", ma lo diventa davvero (ovvero comincia ad essere trattato come tale) solo nel momento in cui qualcuno o qualcosa "riconosce" il pattern e utilizza quindi l'oggetto stesso come documento, in quanto effettivamente (cioè pragmaticamente) informativo (Ridi 2010, p. 10-14).
Ben più estesa (sia cronologicamente che per il numero degli autori coinvolti e per l'impatto culturale complessivo) delle discussioni sugli aspetti oggettivi e soggettivi dell'informazione e dei documenti è quella che si interroga sui medesimi aspetti relativamente alla conoscenza umana, che può essere fatta risalire almeno fino ai filosofi greci presocratici e che annovera fra i suoi protagonisti personaggi del calibro di Platone, Aristotele, Descartes, Spinoza, Locke, Hume, Kant e Wittgenstein, tanto per limitarsi a pochi nomi della tradizione occidentale. Al tempo stesso tanto più selettiva quanto più inevitabile sarà dunque la scelta di limitarsi, per riassumerla in questa sede senza alcuna pretesa di esaustività, a una manciata di autori e testi degli ultimi decenni.
Anche in questo caso può giovare partire da un dibattito molto recente – addirittura ancora in corso (Santarcangelo - Scarpa 2015) – innescato nel 2011 da Maurizio Ferraris, docente di filosofia teoretica all'Università di Torino, quando ha tirato le fila del proprio progressivo allontanamento dalle posizioni "soggettivistiche" giovanili per approdare a una posizione più "oggettivistica" coniando l'efficace etichetta del "nuovo realismo", che da allora sta propagandando in numerose pubblicazioni (fra cui Ferraris 2012 e De Caro - Ferraris 2012).
La tesi fondamentale del nuovo realismo è che dopo decenni di predominio, sulla scena filosofica internazionale, di teorie sulla conoscenza umana che ne sottolineano l'incertezza, la relatività e gli ineludibili elementi "costruttivi" introdottivi dal punto di vista del soggetto conoscente (variamente articolate e denominate da un numero di autori troppo vasto per poterli citare come "postmodernismo", "costruttivismo/costruzionismo", "contestualismo", "prospettivismo", "relativismo", "scetticismo", "pragmatismo", "logocentrismo", "trascendentalismo" [4], "decostruzionismo", "poststrutturalismo", "antirealismo", "irrealismo" o "pensiero debole", ma sicuramente avrò dimenticato qualche altra etichetta), sia giunta l'ora di sottolineare invece come esista una realtà oggettiva "inemendabile" (Ferraris 2009, p. 92-94; Ferraris 2012, p. 48-52), ovvero indipendente dai nostri punti di vista e "resistente" alle nostre interpretazioni, della quale magari non è facile individuare e descrivere con esattezza tutte le caratteristiche ma con la quale dobbiamo inevitabilmente fare i conti.
Detto diversamente, dopo un lungo periodo di predominio dell'epistemologia, della gnoseologia e dell'ermeneutica (che sono i nomi con cui – con sfumature legate a paesi, lingue e scuole di pensiero – si indicano le sottodiscipline della filosofia che si occupano di come – e se – sia possibile conoscere il mondo), bisognerebbe adesso rivalutare metafisica e ontologia, che sono invece le sottodiscipline filosofiche che si occupano di come – e se – il mondo esiste ed è strutturato (Ferraris 2009, p. 62-89 e 359; Ferraris 2012, p. 43-47). Detto diversamente ancora, la frase di Nietzsche (1887, p. 299, frammento 7 [60]) "non ci sono fatti, solo interpretazioni", che per Ferraris (2009, p. 75-83; 2012, p. 4-5) costituirebbe il motto fondamentale del fronte opposto a quello del nuovo realismo, andrebbe sostituito con la constatazione che "ci sono ampie sfere della realtà che risultano indipendenti da teorie e da condizionamenti culturali" (Ferraris 2009, p. 86).
Peccato però che, secondo vari autori per nulla impressionati dalla "conversione" realistica di Ferraris (Veca 2012, D'Agostini 2013, Di Cesare – Ocone – Regazzoni 2013, Totaro 2014), le argomentazioni del filosofo torinese siano sostanzialmente basate sull'artificio retorico detto "dello spaventapasseri", consistente nell'inventarsi una caricatura dell'avversario che sia più facile da confutare, e che le sue stesse posizioni siano ancora in gran parte impregnate di quel costruttivismo che pretenderebbe di aver ripudiato e di voler combattere.
Quale "realismo" è un realismo che si definisce contrapponendosi a un antirealismo inesistente, mai sostenuto da nessuno? […] E perché mai sarebbe "realismo" il semicostruzionismo difeso da Ferraris (non tutto è costruzione, non tutto è interpretazione): una ragionevolissima posizione, ma epistemologica e non metafisica, e tutto sommato già nota a chiunque? (D'Agostini 2013, p. 65).
Effettivamente, rispetto alla prima critica, forse nessuno nell'intera storia della filosofia occidentale [5] (e comunque sicuramente non nell'ultimo mezzo secolo) [6] si è mai spinto fino a negare che esista "qualcosa" di indipendente dai nostri schemi mentali, tant'è vero che la maggior parte, se non la totalità, dei filosofi postmoderni non avrebbe la minima difficoltà nel convenire con la tesi neorealista che "in moltissimi casi la condivisione del mondo dipende dalle caratteristiche degli oggetti ben più che dall'accordo sugli schemi concettuali" (Ferraris 2009, p. 86) – sottolineando semmai che esistono anche casi diversi e che gli schemi concettuali giocano comunque un ruolo importante – e che lo stesso Ferraris deve ammettere che "diversamente dagli scettici antichi, i costruzionisti postmoderni non mettono in dubbio l'esistenza del mondo" (Ferraris 2012, p. 43).
Persino Nietzsche, se ne contestualizziamo la frase incriminata nell'ambito del frammento da cui è stato estratto (Veca 2012, p. 520-523; D'Agostini 2013, p. 34-45; Gemes 2013, p. 557; Totaro 2014, p. 101), prende in realtà le distanze sia dall'oggettivismo che dal soggettivismo più radicali, mostrando come le interpretazioni siano il luogo di incontro di entrambe tali istanze e mettendo in dubbio non tanto l'esistenza dei "fatti" quanto piuttosto quella di inaccessibili "fatti in sé", dei quali neppure il realista più radicale potrebbe affermare alcunché al di là della mera presupposizione di esistenza. [7]
Contro il Positivismo, che si ferma ai fenomeni: "ci sono soltanto fatti", direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni. Noi non possiamo constatare nessun fatto "in sé"; è forse un'assurdità volere qualcosa del genere. "Tutto è soggettivo", dite voi; ma già questa è un'interpretazione, il "soggetto" non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l'immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo. È infine necessario mettere ancora l'interprete dopo l'interpretazione? Già questo è invenzione, ipotesi.
In quanto la parola "conoscenza" abbia senso, il mondo è conoscibile; esso è interpretabile in modi diversi, non ha dietro di sé un senso, ma innumerevoli sensi. "Prospettivismo".
Sono i nostri bisogni, che interpretano il mondo: i nostri istinti e i loro pro e contro. Ogni istinto è una specie di sete di dominio, ciascuno ha la sua prospettiva, che esso vorrebbe imporre come norma a tutti gli altri istinti (Nietzsche 1887, p. 299-300, frammento 7 [60]).
D'altronde lo stesso Ferraris (2009, p. 78) ammette che "la disparità delle situazioni evidenzia la differenza che intercorre tra la sfera della scienza – della ricerca della verità assoluta – in cui può aver senso la tesi secondo cui non ci sono fatti, solo interpretazioni, e la sfera della vita e dell'esperienza, in cui questa tesi non ha proprio alcun senso", osservazione che probabilmente lo stesso Nietzsche accetterebbe, visto che ha espresso il proprio pensiero (peraltro pubblicato postumo) facendo filosofia e non conversando al bar.
Per la seconda critica quelle di Ferraris sarebbero "argomentazioni cui soggiace una logica affine a quella presente in gran parte dei discorsi postmoderni e debolisti" (Veca 2012, p. 521) e la tesi di fondo che Ferraris propone sarebbe, per sua stessa esplicita ammissione, un "realismo minimalistico o modesto" (Ferraris 2012, p. 64), ovvero un "costruzionismo debole" (Ferraris 2012, p. 75), che si configura più come "un 'trattato di pace perpetua' tra le intuizioni costruzioniste e realiste" (Ferraris 2012, p. 85) piuttosto che come una innovativa e invincibile argomentazione in grado di sconfiggere definitivamente ogni forma di scetticismo e relativismo.
Infatti il filosofo torinese divide il mondo in tre grandi categorie di oggetti, quelli naturali, quelli ideali e quelli sociali [8] (Ferraris 2009, p. 32-56), costruendo intorno a questi ultimi un'intera filosofia della documentalità ("Le carte, gli archivi e i documenti costituiscono l'elemento fondamentale del mondo sociale. La società non si basa sulla comunicazione, bensì sulla registrazione, che costituisce la condizione per la creazione di oggetti sociali" Ferraris 2009, p. 360), nella quale il costruttivismo postmoderno è interamente accolto, con un ruolo integrante e fondante.
Nel mondo degli oggetti sociali […] la credenza risulta determinante dell'essere, dal momento che questi oggetti sono dipendenti da soggetti. […] Il trascendentalismo, inapplicabile agli oggetti naturali, si rivela applicabilissimo agli oggetti sociali. La tesi kantiana secondo cui le intuizioni senza concetto sono cieche non vale per i laghi e i temporali (che restano quelli che sono indipendentemente dalle nostre concettualizzazioni), bensì per i mutui e le conferenze. […] La nuda vita non è che un inizio remoto, la cultura incomincia molto presto, si ha subito una vita vestita, che si manifesta attraverso registrazioni e imitazioni: linguaggio, comportamenti, riti (Ferraris 2009, p. 359-361).
Per quanto riguarda invece gli oggetti naturali e ideali (ammesso e non concesso che sia banale distinguerli da quelli sociali), che dovrebbero – almeno loro – essere completamente immuni dal costruttivismo, ma che ciò nonostante sono stranamente meno centrali di quelli sociali negli scritti di Ferraris anche dopo la conversione neorealista, può comunque sorgere qualche dubbio sulla loro completa indipendenza dallo sguardo umano, visto che Ferraris (2009, p. 34-35) dichiara di considerare "naturali" gli oggetti che si incontrano nell'esperienza ordinaria e non quelli descritti dalla scienza (come se solo la seconda fosse contaminata da mutevoli costrutti teorici mentre la prima permettesse un accesso diretto alle cose "in sé" stabilmente universale e non orientato da pregiudizi sociali, culturali o personali) e di chiamare "ideali" quelle entità che, come i numeri, "esistono fuori dello spazio e del tempo indipendentemente dai soggetti" (Ferraris 2009, p. 38), ma le cui numerose applicazioni sociali non possono che condividere le problematiche della corrispondente tipologia di oggetti.
A rendere la contrapposizione fra neorealisti e postmoderni meno netta di quanto la dipinga Ferraris contribuisce anche la singolare consonanza delle tesi di due filosofi che dovrebbero invece militare sulle opposte sponde di tale conflitto di idee. Da una parte c'è l'americano Nelson Goodman (1906-1998), padre nobile del postmodernismo, che nel suo classico libro del 1978 Vedere e costruire il mondo definisce la propria posizione come "un relativismo radicale […] che si risolve in qualcosa di assai prossimo all'irrealismo" (Goodman 1978, p. xxvi), in quanto la tesi fondamentale del volume stesso, sintetizzata dal curatore della sua edizione italiana è che
non c'è un mondo; ci sono tanti mondi, nessuno dei quali onnicomprensivo. Più precisamente, c'è un mondo per ogni diverso modo di combinare e costruire sistemi simbolici. C'è un mondo per ogni versione e visione che se ne dà nelle diverse teorie scientifiche, nelle opere di artisti e narratori differenti, nelle nostre percezioni in quanto influenzate da quelle opere e teorie oltre che dalle circostanze, dalle esperienze passate, dagli interessi che ci guidano, dalle nostre capacità di osservazione, e così via.
E siccome per Goodman queste versioni o visioni diverse possono essere ugualmente importanti e indipendentemente interessanti, financo corrette, senza che se ne debba presumere o richiedere la riducibilità a un'unica base comune, ne segue che i mondi che ne derivano hanno lo stesso grado di realtà: nessuno può arrogarsi il diritto esclusivo al titolo di "mondo reale", nessuno può pretendere di essere il mondo a cui le diverse versioni si riferirebbero con linguaggi e modalità differenti (Varzi 2008, p. ix-x).
Dall'altra c'è il giovane filosofo tedesco Markus Gabriel, che nel suo recente volume dal sorprendente titolo (soprattutto per un dichiarato seguace del "nuovo realismo" di Ferraris) Perché non esiste il mondo (Gabriel 2013) non sostiene l'inesistenza dell'universo materiale descritto dall'astronomia e dalla fisica, quanto piuttosto quella di una ipotetica totalità che includa non solo gli oggetti fisici ma anche "molti oggetti che non si possono toccare" (Gabriel 2013, p. 13) come i nostri pensieri, gli stati nazionali, le possibilità irrealizzate e i numeri.
Ciascuno di tali oggetti esiste, per Gabriel, ma solo all'interno di un "campo di senso" (Gabriel 2013, p. 79-86) che lo collega a molti altri oggetti, ma mai a tutti, perché ciascun campo di senso (detto anche "ambito oggettuale" o "provincia ontologica" a p. 62) corrisponde a una determinata prospettiva, che al tempo stesso include ed esclude certi tipi di oggetti. I numeri esistono nel campo di senso della matematica, i rinoceronti in quello della biologia, gli unicorni in quello della mitologia, i pensieri in quello della psicologia, ma non esiste un campo di senso unico (un "ambito di tutti gli ambiti", Gabriel 2013, p. 87) che li ospiti tutti e che possiamo considerare davvero "il mondo", ovvero "il tutto nella sua interezza" (Gabriel 2013, p. 23), perché esso, per esistere, avrebbe a sua volta bisogno di apparire in un più ampio campo di senso, con un paradossale effetto di regresso all'infinito.
Le due teorie sono diverse, perché la prima moltiplica i mondi, mentre la seconda non ne riconosce neppure uno, ma i loro punti di contatto sono comunque notevoli, perché entrambe mettono in dubbio che esista un'unica realtà onnicomprensiva, proponendo al suo posto innumerevoli realtà diverse e incommensurabili fra loro. Goodman presenta la propria teoria come un "irrealismo", Gabriel come un "nuovo realismo", ma entrambe potrebbero forse essere meglio classificate come forme di "iperrealismo", alludendo con tale termine – diversamente che nelle varie accezioni relative alla matematica, alla semiotica, alla musica e alle arti visive – a una sorta di moltiplicazione e arricchimento della realtà e di ammissione della sua inesauribile poliedricità.
In ogni caso il presunto irrealismo di Goodman non è così estremo da sconfinare nel nichilismo [9], giustificando la creazione, da parte degli esseri umani, di qualunque mondo, perché egli "ha rifiutato di considerare ogni costruzione del mondo ugualmente buona: ci sarebbero costruzioni corrette e costruzioni scorrette, e ciò dipende dalla loro conformità agli scopi per i quali vengono impiegate e dalla loro efficacia pratica" (Magni 2010, p. 57; cfr. anche Chiodo 2006, p. 98-104). Ovvero, con le parole dello stesso Goodman, il suo è un "relativismo radicale, ma con l'imposizione di restrizioni rigorose" (Goodman 1978, p. 111). E il neorealismo di Gabriel, nel momento stesso in cui ammette la rilevanza delle discipline scientifiche e dei punti di vista personali per individuare i diversi campi di senso, non può prescindere – che lo ammetta o meno – da elementi di costruttivismo.
Gabriel e Ferraris sono peraltro in buona compagnia nel non riuscire a liberarsi completamente del costruttivismo, perché tutti gli autori (Akeel Bilgrami, Mario De Caro, Michele Di Francesco, Umberto Eco, Maurizio Ferraris, Diego Marconi, Hilary Putnam, Massimo Recalcati, Carol Rovane, John Searle) che hanno contribuito al volume miscellaneo Bentornata realtà: il nuovo realismo in discussione (De Caro – Ferraris 2012), che, nelle intenzioni dei curatori evidenziate in quarta di copertina, avrebbe dovuto fornire "una straordinaria batteria di argomenti a favore del realismo, ma anche dando spazio a voci dissenzienti", si rivelano essere – chi più e chi meno, ma nessuno escluso – dei costruttivisti moderati, ovvero dei pensatori che attribuiscono un ruolo importante, ma mai esclusivo, ai punti di vista sociali, culturali, antropologici, linguistici e personali nel delineare il modo in cui conosciamo il mondo. Tant'è che, dopo aver letto il libro, si ha l'impressione di aver assistito, piuttosto che a un'epica resa dei conti contro il postmodernismo, a una interessante ma sottile discussione interna al movimento postmoderno stesso, relativa a quali e quanti elementi costruttivisti siano ineliminabili dall'epistemologia contemporanea, e non certo alla loro completa eliminazione.
Esemplare, a tale riguardo, è la posizione di Eco, che – pur non citandoli esplicitamente – si rifà al falsificazionismo di Popper (una teoria è scientifica solo se è possibile costruire un esperimento che potrebbe dimostrarne la falsità [10]), al convenzionalismo di Poincaré (le teorie scientifiche sono convenzioni, ma non arbitrarie [11]) e al relativismo radicale ma non nichilista di Goodman ("una versione vera è vera in qualche mondo, una versione falsa in nessuno" [12]) per proporre un "realismo negativo" [13] secondo il quale
ogni ipotesi interpretativa è sempre rivedibile (e come voleva Peirce sempre esposta al rischio del fallibilismo) ma, se non si può mai dire definitivamente se una interpretazione sia giusta, si può sempre dire quando è sbagliata. Ci sono interpretazioni che l'oggetto da interpretare non ammette. […] Certamente la nostra rappresentazione del mondo è prospettica, legata al modo in cui siamo biologicamente, etnicamente, psicologicamente e culturalmente radicati così da non ritenere mai che le nostre risposte, anche quando appaiono tutto sommato "buone", debbano essere ritenute definitive. Ma questo frammentarsi delle interpretazioni possibili non vuol dire che everything goes.
In altre parole: esiste uno zoccolo duro dell'essere, tale che alcune cose che diciamo su di esso e per esso non possano e non debbano essere prese per buone (Eco 2012, p. 105-106).
Indipendentemente dal dibattito sul "nuovo realismo" di Ferraris e Gabriel si possono inoltre citare almeno un paio di altre forme di realismo contemporaneo sofisticato, che hanno cioè metabolizzato le spietate critiche humeane e kantiane [14] alla pretesa di poter adeguatamente conoscere una realtà esterna completamente indipendente dal nostro sguardo, venendo quindi a patti, in una qualche misura, con almeno qualche elemento di costruttivismo.
Franz M. Wuketits (1990), ad esempio, propone un "realismo ipotetico" che, sulla scia dell'epistemologia evoluzionistica di Konrad Lorenz (1973) e di Donald Campbell (1974), sottolinea come il nostro apparato percettivo e conoscitivo sia il frutto di una lunghissima evoluzione naturale e quindi se esso, da una parte, ci vincola a ineludibili limiti biologici, dall'altra è anche verosimile che ci permetta di farci un'idea del mondo esterno sufficientemente realistica da permetterci di sopravvivere, riprodurci e, appunto, evolvere. Il "realismo critico" di Roy Bhaskar (1979) si oppone invece tanto al realismo ingenuo del positivismo che al costruttivismo radicale del postmodernismo, cercando di coniugare una ontologia realista con una epistemologia relativista attraverso il concetto di "spessore" della realtà, che la nostra conoscenza può penetrare più o meno profondamente ma mai completamente.
Passando dall'analisi dei limiti e delle condizioni della conoscenza umana in generale a quella di quel particolare tipo di conoscenza di secondo livello che è l'organizzazione della conoscenza stessa, ci si è spesso chiesti se per classificare e indicizzare oggetti, persone, istituzioni, concetti, documenti e informazioni sia meglio utilizzare categorie basate su un approccio ontologico (cioè sulle caratteristiche delle entità che si vogliono ordinare), su un approccio epistemologico (cioè sulle modalità con cui conosciamo tali entità), su un approccio pragmatico (cioè sul tipo di uso che vogliamo fare sia delle entità stesse che dei loro vari ordinamenti) o, più probabilmente, su variegate combinazioni e alternanze fra tali approcci (Gnoli 2008, p. 77-99; Ridi 2010, p. 90-97).
Ad esempio recentemente Kleineberg (2013) è partito dall'antica parabola indiana dei ciechi che toccando le varie parti di un unico elefante ne forniscono descrizioni completamente diverse e incommensurabili fra loro per illustrare le posizioni dei due opposti schieramenti che si confrontano negli studi internazionali degli ultimi decenni sull'organizzazione della conoscenza. Da una parte ci sono i "modernisti", che sottolineano come l'elefante sia in fin dei conti unico e debba quindi essere possibile integrare le sue varie descrizioni (diverse perché parziali) in un unico disegno, che si focalizzi sul "cosa" della conoscenza.
Per questo approccio "ontologico" all'organizzazione della conoscenza "un obbiettivo primario è classificare la totalità delle entità o dei fenomeni in un sistema di organizzazione della conoscenza (KOS) [15] universale e spesso strutturato a faccette che sia neutrale e oggettivo quanto possibile" (Kleineberg 2013, p. 341). Inversamente, per i "postmodernisti", ciascun cieco non ha semplicemente un diverso accesso (parziale) allo stesso elefante, bensì produce, attraverso la propria esperienza, un tipo di elefante diverso, altrettanto reale e completo di quello degli altri ciechi. Da chi privilegia questo approccio "epistemologico", che si focalizza sul "chi" della conoscenza e il suo background storico, culturale e psicologico, "lo sviluppo di KOS che trascendano il contesto o addirittura universali viene considerato piuttosto scetticamente" (Kleineberg 2013, p. 341).
Kleineberg ritiene incompleti entrambi tali approcci e propone di integrarli, utilizzando sistemi di organizzazione della conoscenza (KOS) che tengano conto sia del "cosa" che del "chi" della conoscenza, e inoltre anche del "come", ovvero dei metodi utilizzati nelle indagini conoscitive, cercando in tal modo di soddisfare allo stesso tempo tanto l'approccio ontologico quanto quello epistemologico e quello metodologico.
Il suo tentativo di sintesi è sicuramente apprezzabile e va nella stessa direzione verso cui si sta muovendo questo stesso articolo, ovvero la constatazione della difficoltà di separare nettamente gli aspetti oggettivi e soggettivi dell'organizzazione della conoscenza, per non parlare dell'eventuale pretesa di eliminare completamente uno dei due, tant'è vero che neppure tutti gli autori scelti come rappresentativi dell'approccio rispettivamente modernista o postmodernista mantengono sempre coerentemente – per ammissione dello stesso Kleineberg (2013, p. 341) – tale posizione.
Semmai si potrebbero forse sollevare dei dubbi di tipo "finanziario" sui costi di procedure di indicizzazione che tengano conto di così tanti aspetti e si potrebbe notare che la scelta della parabola iniziale è forse un po' troppo sbilanciata a favore del fronte "ontologico", almeno tanto quanto sarebbe stato favorevole a quello "epistemologico" prendere invece come esempio l'assistente apparentemente segata in due da un illusionista, ma che a un esame più approfondito si rivelasse essere invece una coppia di donne diverse, di ciascuna delle quali è visibile solo una metà.
Non troppo dissimile dalla proposta "ecumenica" di Kleineberg (2013) è quella di Gnoli (2012b), che partendo dall'esortazione "ontologica" del Manifesto di León (ISKOI 2007) a utilizzare i fenomeni (anziché le discipline, come avviene prevalentemente nella maggior parte degli attuali sistemi) come unità base dei KOS, la arricchisce, prevedendo ben sei "dimensioni dell'organizzazione della conoscenza" (l'inafferrabile realtà in sé, i fenomeni, le prospettive da cui essi sono affrontati da parte degli esseri umani, i supporti che veicolano le corrispondenti informazioni, le collezioni dei documenti in cui viene registrata e conservata la relativa conoscenza e infine i gruppi omogenei di utenti che utilizzano tali documenti), studiate da sei corrispondenti discipline o gruppi di discipline (la mistica, l'ontologia, l'epistemologia, la bibliologia, la biblioteconomia insieme all'archivistica e alla museologia, la sociologia).
α |
(reality) |
[mysticism?] |
β |
phenomena |
[ontology] |
γ |
perspectives |
[epistemology] |
δ |
carriers |
[bibliology] |
ε |
collections |
[library science] |
ζ |
users |
[sociology] |
Figura 1 (dimensioni dell'organizzazione della conoscenza
secondo Gnoli) tratta da Gnoli (2012b, p. 270).
È degno di nota, rispetto a quelle che saranno le conclusioni contenute nell'ultimo paragrafo di questo testo, che Gnoli – uno degli autori citati da Kleineberg (2013) come particolarmente rappresentativo della corrente modernista negli studi sull'organizzazione della conoscenza – accolga nel suo schema anche la dimensione epistemologica, tipica della corrente postmodernista, in quanto essa include "le discipline […], i domini di cui si occupano le diverse comunità di ricerca, le attività umane a cui si intende applicare la conoscenza, le funzioni comunicative esercitate trasmettendo conoscenza, le teorie adottate e i metodi applicati, l'epoca storica e il contesto geografico in cui la conoscenza viene prodotta e, in generale, tutti i punti di vista adottati dagli autori" (Gnoli 2012b, p. 271) [16].
Coerentemente con tale apertura "multidimensionale" lo stesso Gnoli, durante il dibattito conclusivo dell'incontro ISKO tenutosi a Bologna il 20 aprile 2015, ha accettato la possibilità di aggiungere persino una settima "dimensione", relativa agli obbiettivi, alle preferenze, alle abitudini e ai vincoli dei singoli utenti e alle caratteristiche dei diversi e mutevoli bisogni e comportamenti informativi di ciascuno di essi, studiata dalla psicologia e dalla scienza dell'informazione.
Inversamente – e altrettanto significativamente – il postmodernista (sempre secondo Kleineberg 2013) Hjørland, nonostante ritenga che "i concetti dei fenomeni (ecc.) dipendono dalle teorie e dagli interessi" (Hjørland 2008, p. 338) perché non esiste "una posizione neutrale da cui il mondo possa essere osservato oggettivamente" [17] (Hjørland 2008, p. 337) e quindi "tutte le interpretazioni sono circolari, indeterminate e prospettiche" anche quando stiamo "descrivendo e classificando fenomeni nel mondo", non esita a concludere che non crede "che ciò conduca allo scetticismo o all'antirealismo, perché alcune teorie svolgono un lavoro migliore di altre" (Hjørland 2008, p. 338).
Concetto, quest'ultimo, ribadito e approfondito anche in un suo recentissimo articolo (Hjørland 2015) in cui dimostra la stretta dipendenza reciproca fra teorie e KOS, ancora più rilevante per l'organizzazione della conoscenza se si pensa che "persino i concetti della vita quotidiana […] sono costruzioni teoriche e hanno implicazioni teoriche su ciò che pensiamo e facciamo" (Hjørland 2015, p. 114) e che "spesso quelli che vengono considerati 'fatti' successivamente si rivelano essere una teoria" (Hjørland 2015, p. 116). Il costruttivismo e il postmodernismo di Hjørland non gli impediscono, dunque, di riconoscere che né tutte le teorie né tutti i KOS svolgono altrettanto bene il proprio compito di descrivere e organizzare il mondo o sue parti, ammettendo quindi implicitamente che "là fuori" deve per forza esserci qualcosa di indipendente da essi che ci aiuta a confrontarne l'efficacia.
Un concetto che può risultare particolarmente utile per focalizzare la differenza fra approcci oggettivistici e soggettivistici all'organizzazione della conoscenza è quello dei "livelli di realtà" (Gnoli 2006; Poli 2007; Gnoli - Ridi 2014, p. 450-453), utilizzato da vari KOS di stampo oggettivistico – fra cui la Information coding classification (Dahlberg 1982) e la Integrative levels classification (ISKOI 2004) – come spina dorsale per collegare fra loro in modo al tempo stesso coerente ma non riduzionistico tutte le entità che i KOS stessi si prefiggono di classificare. Secondo tale approccio, declinato in innumerevoli varianti nella storia della filosofia e della scienza almeno fin da Platone, tutto ciò che esiste fa parte di una unica "grande catena dell'essere" (Lovejoy 1936) gerarchica che va dal semplice al complesso e non ammette vuoti.
Nel ventesimo secolo la versione prevalente di tale idea è stata quella - influenzata dalle teorie di Darwin e da altre forme di evoluzionismo - dei livelli "emergenti" o "integrativi" della realtà, ovvero di strati successivi (in senso sia logico che, talvolta, anche cronologico) di entità man mano sempre più complesse e autonome, dotate di caratteristiche assenti nello strato precedente ma che ne emergono come autenticamente innovative, pur basandosi su di esse, come ad esempio accade per le proprietà chimiche rispetto a quelle fisiche o per quelle biologiche rispetto a quelle chimiche (Juarrero - Rubino 2008).
Fra le teorie filosofiche sui livelli emergenti della realtà più influenti sui più recenti studi di organizzazione della conoscenza si può ricordare quella di Nicolai Hartmann (1882-1950), che prevede una stratificazione della realtà in quattro livelli (inorganico, organico, psichico e spirituale) autonomi e irriducibili fra loro ma necessariamente poggiati l'uno sull'altro per poter esistere (Hartmann 1940, Scognamiglio 2008).
Esiste però anche (almeno) un'altra accezione dell'espressione "livelli di realtà", ovvero quella cui si riferisce il titolo dell'omonimo convegno tenutosi a Firenze nel 1978, i cui atti sono stati pubblicati qualche anno più tardi da Piattelli Palmarini (1984). In tale occasione una ventina di filosofi, logici, psicologi, psichiatri, biologi, paleontologi, storici, linguisti e letterati (fra cui, oltre allo stesso Piattelli Palmarini e ai già citati Goodman e Putnam, anche Alfred J. Ayer, Stephen J. Gould, Ronald D. Laing e Italo Calvino) si incontrarono per discutere su come andasse intesa la realtà di cui, in un modo o nell'altro, le rispettive tradizioni di studi si occupano, scoprendo che non solo ciascuna disciplina, forma di sapere, scuola di pensiero o singola teoria ha a che fare con una realtà diversa dalle altre (la cui sommatoria scompone la realtà complessiva in una serie di livelli mutevolmente molteplici e scarsamente integrabili in un unico schema), ma che addirittura alcuni di tali punti di vista costruiscono mondi dotati, a loro volta, di un qualche tipo (ovviamente sempre diverso e solo talvolta di tipo emergentista) di articolazione in strati o livelli.
Fra i relatori non c'erano specialisti in organizzazione della conoscenza, ma è facile intuire quali potrebbero essere (visti i forti legami fra teorie e KOS di cui si è parlato nel paragrafo precedente) le ricadute in tale ambito di questa caleidoscopica e labirintica moltiplicazione esponenziale dei livelli di realtà, che porta alle estreme conseguenze l'approccio "iperrealista" illustrato nel paragrafo 5.
L'approccio ontologico ai livelli della realtà (che ne costituirebbero strati oggettivamente connessi fra loro in modo univoco e stabile) e quello epistemologico (nel quale i livelli vengono costruiti dal modo in cui la realtà viene "ritagliata" dai vari osservatori, e quindi i livelli stessi mutano nel tempo e sono incommensurabili fra loro) parrebbero totalmente inconciliabili (Poli 2007, p. 33), ma di nuovo Kleineberg, in un intervento non ancora pubblicato, ci fa venire il sospetto che non lo siano poi così tanto.
Kleineberg (2014b) inizia il suo saggio illustrando (fig. 2) la stratificazione della realtà teorizzata da Hartmann (1940), per poi applicarle una serie di trasformazioni formali, alcune delle quali desunte da Poli (2001), che progressivamente si allontanano dalla linearità dello schema originale e introducono schemi in cui una pluralità di strati superiori "coevolvono" da uno strato inferiore, fino a giungere allo schema (fig. 3) proposto da Wilber (2000), piuttosto complesso se non addirittura barocco nella sua eleganza, ma che ha il pregio di supportare un'ipotesi di soluzione del millenario problema filosofico del rapporto fra mente e corpo (Nannini 2011) quanto meno originale, riallacciandosi all'antica tradizione del panpsichismo (Skrbina 2005), che Wilber tenta di rendere compatibile con la scienza contemporanea.
Figure 2 e 3 (livelli della realtà secondo Hartmann e secondo Wilber) tratte da Kleineberg (2014b); figura 3 (a destra) a sua volta tratta da Wilber (2000, p. 198).
Sia lo schema di Hartmann (1940) che quello di Wilber (2000) sono intesi dai rispettivi autori come ontologici, ovvero come tentativi di descrivere la reale struttura del mondo, indipendentemente dai nostri punti di vista, ma le procedure di trasformazione formali applicate da Kleineberg (2014b) – il cui incipit, oltretutto, si riferisce ai livelli di realtà come a una "metafora" – e la molteplicità degli schemi intermedi elaborati nel corso della trasformazione stessa non possono che trasmettere al lettore un certo sapore "epistemologico" dell'operazione, anche indipendentemente dalla volontà e dalle opinioni del suo artefice.
Da una parte, quindi, i livelli di realtà ontologici potrebbero anche essere visti come livelli di realtà epistemologici, ma, dall'altra, perché non ipotizzare – almeno in linea di principio – la possibilità di una struttura ontologica dei livelli talmente articolata da assorbire al proprio interno anche tutti i livelli di tipo epistemologico? In fondo la teoria oggi prevalente di un mondo fisico che ospita, al suo interno, miliardi di coscienze, non è poi tanto più bizzarra, dal punto di vista strettamente logico, di quella di una unica coscienza che contenga l'intero universo fisico.
Come si è visto sono presenti aspetti sia oggettivi che soggettivi in ciascuno dei concetti esaminati (informazione, documento, conoscenza, organizzazione della conoscenza, livello di realtà), come del resto sono talvolta costretti ad ammettere persino alcuni autori che vengono spesso considerati intransigenti oggettivisti o soggettivisti, a causa non tanto di eventuali contraddizioni intrinseche alle proprie teorie quanto dell'ineludibile complessità delle questioni che esse vorrebbero risolvere. Tale compresenza si realizza in modi diversi e in proporzioni variabili nell'ambito di ciascuno dei concetti esaminati, peraltro tutti strettamente connessi fra loro.
Ad esempio, a livello metafisico è difficilmente sostenibile un irrealismo estremo, perché anche i costruttivisti più radicali ammettono che deve comunque esistere "qualcosa" che oppone resistenza a una conoscenza umana che altrimenti risulterebbe puramente allucinatoria. A livello pratico non sarebbe invece del tutto inaccettabile la posizione di chi sostenesse che ogni tipo di KOS va giudicato, in fin dei conti, solo sulla base della sua utilità sociale o comunque della sua efficacia nel risolvere specifici problemi informativi, perché i KOS stessi non sono in fondo altro che strumenti inventati dagli esseri umani per migliorare la propria vita.
D'altronde nemmeno scenari radicalmente solipsistici come quello immaginato (per confutarlo) da Putnam (1977) e popolarizzato dal film Matrix [18] ("Siamo cervelli in una vasca di liquido fisiologico, collegati a un computer che ci fornisce l'esperienza della realtà?", D'Agostini 2013, p. 131-132) escludono l'esistenza, come minimo, di un cervello, di una vasca e di un computer. E persino l'eventuale (cfr. nota 5) nichilismo di Gorgia ("Nulla esiste. Se anche l'essere fosse, rimarrebbe inconoscibile. Se anche fosse pensabile, l'essere rimarrebbe inesprimibile", cfr. Reale 2004, p. 71-82) presuppone almeno l'esistenza di Gorgia stesso.
Tant'è vero che c'è chi ha definito il realismo una "questione non controversa" (D'Agostini 2013) perché è impossibile negare, mantenendo un minimo di coerenza logica, che esista un qualche tipo di realtà, e semmai la controversia può sorgere solo su cosa si ritiene reale e su come sono strutturate la realtà e la nostra conoscenza di essa. Questione, quest'ultima, per niente banale, visto che "dal mondo arrivano solo pochi raggi di luce che colpiscono la retina, e qualche molecola d'aria che vibra nei timpani – immagini ed echi. Com'è possibile, allora, afferrare la realtà? Da dove provengono le nostre teorie sul mondo e come le ricaviamo?" (Gopnik 2009, p. 90). Partendo da dati sensoriali così minimali è difficile non prevedere nella soluzione dell'enigma un qualche tipo di ruolo – stavolta non minimale – delle nostre strutture conoscitive.
Se, come ha scritto il filosofo e matematico Alfred North Whitehead (1861-1947), "la più opportuna caratterizzazione generale della tradizione filosofica europea è l'indicazione che essa consiste in una serie di note a Platone" (Whitehead 1929, p. 114), è probabile che l'epistemologia e l'ontologia degli ultimi due secoli siano, a loro volta, note di quell'importante nota a Platone costituita dalla Critica della ragione pura di Immanuel Kant (1781/1787) [19]. In tale opera viene infatti dimostrata da una parte l'impossibilità, per l'intelletto umano, di conoscere i noumeni, ovvero le "cose in sé" come sono di per se stesse, indipendentemente dal nostro sguardo e, dall'altra, che i fenomeni, ovvero gli unici oggetti che possiamo invece davvero conoscere, sono pesantemente condizionati dalle strutture fondamentali e universali, tanto necessarie quanto ineludibili (dette "trascendentali"), di ogni nostra possibile conoscenza.
Gran parte dell'epistemologia e dell'ontologia successive a Kant (incluse quelle che fondano, spesso tacitamente, gli studi sull'organizzazione della conoscenza [20]) possono essere ricondotte a fasi di un lungo dibattito sulla natura di tali fenomeni: sono mere apparenze, rispetto all'autentica e inattingibile realtà costituita dai noumeni, oppure sono l'unica realtà esistente, relegando i noumeni a meri casi limite, del tutto ipotetici in quanto conoscibili solo da un eventuale intelletto divino?
Non è facile rispondere una volta per tutte a tale domanda, anche perché persino Kant ha oscillato fra una posizione "realista" in cui pareva interpretare i fenomeni come apparenza (nella prima edizione della Critica, del 1781) e una "costruttivista" in cui li interpretava invece più decisamente come realtà (nella seconda edizione, del 1787) e che c'è chi attribuisce a una diversa interpretazione di Kant la grande divisione sussistente nella filosofia contemporanea fra gli "analitici" anglosassoni (che considerano Kant un costruttivista) e i "continentali" (soprattutto tedeschi e francesi), che lo considerano invece un realista (D'Agostini 2013, p. 108-112).
Quella su noumeni e fenomeni non è una diatriba né squisitamente accademica né esclusivamente filosofica, perché dalla posizione assunta rispetto a tale dibattito possono derivare sia diversi orientamenti rispetto a ciascuno dei temi affrontati in questo testo, sia una diversa sfumatura nel modo in cui si può individuare e denominare quella compresenza di aspetti oggettivi e soggettivi che è emersa rispetto a ciascuno di essi.
È quindi possibile che dipenda anche da una diversa interpretazione (più o meno consapevole) di Kant il fatto che personalmente tenderei a definire "costruttivismo moderato" (o, se si preferisce, "costruttivismo realista") quella sintesi di oggettivismo e soggettivismo che consiste nel riconoscere che la realtà non è né completamente "data" né completamente "costruita" e che costituisce (al di là di troppo accentuate pseudo-opposizioni) il paradigma di fatto oggi dominante sia negli studi di epistemologia che in quelli di organizzazione della conoscenza, mentre Dux (2011) preferisce parlare (invertendo i concetti) di "realismo costruttivista", Eco (2012) di "realismo negativo", Wuketits (1990) e Gnoli (a Bologna) di un "realismo ipotetico" fondato sugli assunti che hanno finora superato il vaglio della selezione naturale e Hjørland (2004) opta invece per un "realismo pragmatico" che consisterebbe nel riconoscere sia che "le nostre ontologie dipendono dalle nostre teorie e dai nostri paradigmi" sia che "non possiamo inventare liberamente strutture arbitrarie", perché "il mondo fornisce 'resistenza' alle nostre concettualizzazioni sotto forma di anomalie, cioè di situazioni in cui diventa chiaro che c'è qualcosa di sbagliato nelle strutture assegnate al mondo dai nostri concetti", attribuendolo anche al famoso epistemologo Thomas Kuhn (1922-1996), riconoscendo però anche che spesso tale posizione viene invece considerata antirealista (p. 492).
In ogni caso, al di là delle sfumature, delle denominazioni e del tentativo di entrambi gli opposti schieramenti di annettersi la posizione moderata intermedia, credo che tale approccio possa condividere le stesse aspirazioni alla sintesi fra esigenze ontologiche ed epistemologiche espresse da Kleineberg (2013) rispetto alla propria teoria della conoscenza.
Combinando epistemologia e ontologia, questa teoria della conoscenza cerca di integrare l'innegabile costruttivismo della conoscenza umana con la sua capacità di riflettere una realtà che viene considerata come parzialmente indipendente da un osservatore umano. In altre parole, non viene richiesta né la premessa di strutture ontiche pre-date, né quella di arbitrarie costruzioni epistemiche della realtà, due posizioni estreme note anche come il "mito del dato" inventato da Wilfried Sellars e il "mito della cornice" coniato da Karl R. Popper (Kleineberg 2013, p. 349).
Non è però detto che tali aspirazioni vengano effettivamente soddisfatte dalle teorie attualmente disponibili sia nell'ambito filosofico che in quello dell'organizzazione della conoscenza – inclusa quella di Kleineberg (2013) e quella abbozzata in questo stesso testo – perché ciò significherebbe che esse sarebbero finalmente riuscite a risolvere in modo convincente un problema che dura dai tempi dei presocratici e che è stato riformulato in epoca moderna da una bipolarizzazione postkantiana a cui è estremamente difficile sfuggire, anche perché permea profondamente il nostro stesso linguaggio. Tale bipolarizzazione tende sia a far schierare chiunque rifletta su questi temi su una posizione oggettivistica o su una soggettivistica, sia a far attribuire una di tali posizioni anche alle teorie che, in un modo o nell'altro, vorrebbero invece superare la loro contrapposizione, come probabilmente faranno anche i lettori di questo articolo e di quello di Kleineberg (2013).
In attesa che una teoria di mediazione o di sintesi davvero persuasiva emerga, magari sulla scia delle riflessioni di Thomas Metzinger (2009) [21] sull'esperienza come una sorta di pellicola neutra fra oggettività e soggettività simile alle pareti di un tunnel, quello che pragmaticamente si può cercare di fare è accettare che "la coesistenza di punti di vista conflittuali, che variano a seconda del distacco dal sé contingente, non è soltanto un'illusione praticamente necessaria, ma un fatto irriducibile della vita" (Nagel 1979, p. 206) e che "forse siamo veramente condannati a essere tutti two-tier thinkers (pensatori a due livelli: sia realisti, sia relativisti)" (Piattelli Palmarini 1984, p. 524), sforzandoci di utilizzare i termini "oggettivo" e "soggettivo" solo in senso relativo e non assoluto ("questo è più oggettivo/soggettivo di quello") come si fa abitualmente per coppie come "alto/basso", per le quali frasi come "quel bambino è alto" vengono comunemente e correttamente intese come abbreviazioni per "quel bambino è più alto della maggioranza di quelli della sua stessa età".
Inoltre sarà sempre utile ricordarsi che l'organizzazione della conoscenza (come si è accennato nei paragrafi 2, 3 e 6) ha bisogno o comunque si giova di approcci non solo ontologici ed epistemologici ma anche sociologici, che in un certo senso mediano fra oggettività e soggettività sottolineando come i KOS non solo organizzino qualcosa e lo facciano da certi punti di vista, ma per lo più seguano anche modalità e finalità condivise all'interno di gruppi sociali più o meno ampi, se non vogliono relegarsi nell'irrilevanza e condannarsi all'insostenibilità. [22]
In tal modo, piuttosto che alimentare una sterile polemica fra le posizioni di ingenui "realisti puri" e di fantomatici "irrealisti puri" (entrambi in realtà assenti dalle pagine delle riviste contemporanee sia di filosofia che di organizzazione della conoscenza) potremmo tutti accettare che ci sono sia i fatti, sia le interpretazioni (D'Agostini 2013, p. 40) e discutere più pacatamente e più proficuamente su quanti e quali elementi (più) oggettivi e (più) soggettivi sono coinvolti in ciascuna specifica situazione conoscitiva o sono utili in ciascun specifico KOS. E potremmo forse anche tutti condividere e applicare anche ai KOS quanto Eugenio Lecaldano (1987) ha scritto a proposito delle teorie filosofiche riassumendo la posizione di Bernard Williams (1985), ovvero che esse "possono essere considerate come reti a maglie molto larghe costruite per cercare di afferrare il mondo, con la consapevolezza che molto ne resterà fuori e che altri – del tutto legittimamente – getteranno reti differenti".
Riccardo Ridi, Dipartimento di studi umanistici - Università Ca' Foscari, Venezia, e-mail: ridi@unive.it
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[1] Il testo prende spunto dall'omonima relazione, tenuta a Bologna il 20 aprile 2015 insieme a Claudio Gnoli in occasione del settimo incontro del capitolo italiano dell'ISKO, differenziandosene però soprattutto nella parte finale. Le slide della relazione originale sono disponibili a <http://lettere2.unive.it/ridi/2015isko.ppt>. Le traduzioni non diversamente attribuite in bibliografia o nelle note sono mie e tutti gli URL sono stati verificati il 20 giugno 2015. Ringrazio Juliana Mazzocchi per la revisione, Alberto Salarelli per i suggerimenti, Michael Kleineberg per l'anticipazione di un suo lavoro non ancora pubblicato (Kleineberg 2014b) e l'autorizzazione a utilizzarne due immagini e Claudio Gnoli per consigli, segnalazioni e discussioni, prima, durante e dopo il 20 aprile. Questo articolo è dedicato a Francesco Dell'Orso, scomparso durante la sua stesura, con cui negli ultimi anni ho scambiato lunghi e appassionati e-mail sugli argomenti connessi.
[2] "Le informazioni hanno una base fisica. Questa base consiste in una serie di configurazioni, geometriche o energetiche, che cambiano nel tempo e nello spazio. Tale cambiamento stabilisce delle differenze fra una configurazione e la configurazione successiva" (Serrai 1973, p. 21).
[3] Pare che Leonardo da Vinci sia stato il primo a capire il meccanismo degli anelli stagionali, nel XV secolo, mentre sono stati sicuramente James Watson, Francis Crick e Maurice Wilkins a ricevere nel 1962 il premio Nobel per la scoperta del DNA, avvenuta una decina di anni prima grazie anche ai lavori di altri scienziati.
[4] Da non confondere con l'omonimo movimento letterario americano ottocentesco di cui Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau furono fra i maggiori esponenti.
[5] Il solipsismo, ovvero l'ipotesi che il mondo sia solo una sorta di allucinazione del soggetto conoscente, è una teoria scettica presa in considerazione da vari filosofi (fra cui Descartes, Fichte, Schopenhauer, Husserl, Wittgenstein e Russell), ma solo per respingerla, sia pure talvolta considerandola teoreticamente inattaccabile dal punto di vista strettamente logico (Thornton 2004; Mazzantini - Sacchi 2011; D'Agostini 2013, p. 131-137). A rigore neppure l'idealista George Berkeley (1685-1753) – spesso erroneamente ritenuto il campione dell'irrealismo solipsista – riteneva che il suo motto "esse est percipi" ("essere significa essere percepito") implicasse il carattere allucinatorio (o completamente creativo) della conoscenza umana, grazie alla garanzia divina della sua conformità con una realtà esterna coincidente con le idee presenti nella mente di Dio (Downing 2011). Né l'idealismo tedesco ottocentesco di Fichte, Schelling e Hegel può essere considerato una forma di irrealismo o di antirealismo, a causa della sua forte componente oggettivistica e della sua acuta consapevolezza dei limiti della conoscenza empirica umana (Ivaldo 2010). Persino della nichilistica tesi di Gorgia (485 AC - 375 AC) "nulla esiste" (giuntaci peraltro solo attraverso testimonianze posteriori) si discute da almeno un secolo se vada presa alla lettera o non costituisca, piuttosto, una confutazione (o una parodia) del pensiero di Parmenide (Migliori 1973, p. 157-202; Reale 2004, p. 71-82; Bonazzi 2010, p. 39-50). E neppure l'illusorietà del mondo empirico tipica di filosofie orientali come il buddismo, l'induismo e il taoismo impedisce che esse prevedano anche una realtà più profonda e stabile, variamente denominata (Capra 1975, p. 147-148; Feyerabend 1999, p. 12-14). Per rintracciare forme di esplicita e decisa negazione teoretica del "mondo esterno" occorrerebbe quindi scandagliare accuratamente la storia del pensiero sia occidentale che orientale, approfondendo l'eventuale antirealismo di posizioni filosofiche comunque completamente estranee al postmodernismo come quella del solipsista seicentesco Claude Brunet (Mazzantini - Sacchi 2011, p. 10845) oppure quella del neoidealista Giovanni Gentile (1875-1944), che secondo alcuni interpreti opera col suo attualismo "una radicale eliminazione di tutti gli elementi 'oggettivistici' che ancora permangono nell'hegelismo" (D'Agostini 1999, p. 117; cfr. anche Severino 2014, p. 31), realizzando "la negazione di millenni di pensiero realistico, o di tentativi falliti di uscire dal realismo" (Severino 2014, p. 21).
[6] Persino l'epistemologo "anarchico" Paul Karl Feyerabend (1924-1994), considerato uno dei costruttivisti più radicali del ventesimo secolo, ammette che "il nostro intero Universo […] è stato costruito da generazioni di scienziati-artigiani servendosi di un materiale di sconosciute proprietà, in parte malleabile, in parte resistente" (Feyerabend 1999, p. 285, il corsivo è mio).
[7] Per tacere dell'altro passo quasi coevo nel quale, dopo aver espresso una tesi analoga, Nietzsche stesso ammette che anch'essa è, in fondo, solo un'interpretazione, rifiutando quindi di attribuirle un'eccessiva pretesa esplicativa (Nietzsche 1886, p. 27-28, aforisma 22; D'Agostini 2013, p. 34).
[8] Per completare il "catalogo del mondo" (Ferraris 2009, p. 3-56) ci sarebbero poi anche i "soggetti", definiti come "individui caratterizzati dal possedere dei sistemi nervosi centrali sofisticati al punto di accogliere e fissare delle rappresentazioni" (Ferraris 2009, p. 20), il che farebbe pensare che si tratti, in fin dei conti, solo di una particolare tipologia di "oggetti naturali".
[9] O nel "trivialismo, ossia il tutto è vero, tutto va bene, legittimato dalla fine dei discorsi legittimanti" (D'Agostini 2013, p. 86).
[10] Cfr. Popper (1935) e Antiseri (2011).
[11] Cfr. Poincaré (1902) e Fortino (1997).
[12] Goodman (1984, p. 31), citato e tradotto da Magni (2010, p. 57).
[13] Sul realismo negativo di Eco e altre forme di realismo filosofico "moderato" contemporaneo si veda il capitolo Strani realismi di D'Agostini (2013, p. 139-146). Ulteriori forme di realismo filosofico contemporaneo vengono menzionate da De Caro - Ferraris (2012, p. x-xi) e altre ancora sono discusse negli altri capitoli di D'Agostini (2013).
[14] Sui rapporti di Hume e di Kant con lo scetticismo si vedano, rispettivamente, Lecaldano (2007) e Ferrini (2007).
[15] I KOS (knowledge organization systems) sono elenchi strutturati e controllati di termini utilizzati per organizzare, gestire e cercare informazioni, documenti e conoscenze in un determinato ambito o per un certo scopo. Tipici esempi di KOS sono gli schemi di classificazione, i soggettari, i tesauri e le tassonomie (Zeng 2008, Hjørland 2015).
[16] Per ulteriori commenti su Gnoli (2012b) e su Kleineberg (2013) cfr. Gnoli - Kleineberg - Szostak (2014) e Kleineberg (2014a).
[17] Sulla difficoltà di "uno sguardo da nessun luogo" si vedano anche l'omonimo libro di Nagel (1986) e Ridi (2010, p. 90-94).
[18] Sugli aspetti filosofici dei tre film della saga (The Matrix, 1999; The Matrix reloaded, 2003; The Matrix revolutions, 2003), tutti scritti e diretti dai fratelli Andy e Larry/Lana Wachowski, si vedano Irwin (2002 e 2005) e Cappuccio (2004). Sulle radici cartesiane e sulla fortuna filosofica dei "cervelli in una vasca" cfr. Davies (2004).
[19] "Una cosa, infatti, Kant la ha ottenuta, dopo le prime resistenze: essere il pensatore di gran lunga più influente, in modo diretto o indiretto, nella filosofia di due secoli, l'Ottocento e il Novecento" (Ferraris 2004, p. 136).
[20] Come notato ad esempio da Alberto Salarelli quando, commentando il dibattito fra Bates e Hjørland sintetizzato nel secondo paragrafo di questo testo in un e-mail privato preliminare al dibattito sulla natura dei documenti riassunto a sua volta nel terzo paragrafo, scrisse: "Francamente mi pare che non ci siamo mossi un granché dalla suddivisione kantiana tra noumeni e fenomeni" (25 gennaio 2012).
[21] A loro volta riconducibili all'empiriocriticismo di Ernst Mach (1838-1916) e Richard Avenarius (1843-1896) e alla fenomenologia di Edmund Husserl (1859-1938).
[22] Senza però escludere la sensatezza anche di forme di organizzazione della conoscenza fini a se stesse (Gnoli 2013) o di uso strettamente privato (Jones - Teevan 2007).