I MERCATI SONO CONVERSAZIONI
Quando pensate ad Internet, non pensate a dei camion Mack pieni di diavolerie destinate alla distribuzione,
che rullano fra innumerevoli tabelloni pubblicitari.
Pensate ad una tavola apparecchiata per due [1]
I mercati sono conversazioni: è la prima delle 95 tesi di un documento del 1999, noto come Cluetrain Manifesto, che ridefinisce la natura ed i processi tipici dei mercati nell'era del web in termini di comunicazioni tra persone. Nel contesto dei mercati online le aziende, i produttori e i venditori di beni o servizi perdono centralità, potere, capacità di intermediazione rispetto al soddisfacimento dei bisogni, a vantaggio delle persone, che sono sempre meno consumatori o utenti finali passivi, che invece ne acquisiscono. La tesi 18 dice che Le aziende che non capiscono che i loro mercati sono ormai una rete tra singoli individui, sempre più intelligenti e coinvolti, stanno perdendo la loro migliore occasione. La tesi 11 dice che le persone nei mercati in rete sono riuscite a capire che possono ottenere informazioni e sostegno più tra di loro che da chi vende; la tesi 9 dice che queste conversazioni in rete stanno facendo nascere nuove forme di organizzazione sociale e un nuovo scambio della conoscenza. Le aziende che non sanno entrare dentro queste comunicazioni fra persone, cioè che non sanno parlare il linguaggio dei propri mercati, sono destinate, secondo gli estensori del manifesto, all'emarginazione.
Abbiamo tentato, come Gruppo di studio AIB, concretizzando un'idea di Giovanni Bergamin (il gruppo è composto appunto da Giovanni Bergamin, Angela Di Iorio, Valdo Pasqui e Roberto Raieli, oltre a me), di trasporre alcune di queste idee nel contesto delle biblioteche digitali; il risultato è il Manifesto per le biblioteche digitali, 30 tesi articolate in tre sezioni: Principi, Modelli, Funzioni.
Ci eravamo proposti l'obiettivo di scrivere un testo dotato di una certa tensione "etica", se posso usare questo termine (la tesi 3: le biblioteche digitali promuovono la conoscenza, o la tesi 11, le biblioteche digitali sono finanziate in maniera trasparente), e che fosse efficace; di qui appunto la struttura a tesi, ognuna introdotta da un breve titolo, in modo da mantenere anche un certo ritmo nella loro concatenazione. Non volevamo d'altra parte essere eccessivamente visionari o troppo astratti, in quanto ci piaceva l'idea che il manifesto potesse anche essere utilizzato come strumento di interpretazione della realtà e di valutazione critica dei progetti di biblioteca digitale. Gran parte delle nostre discussioni hanno ruotato intorno al tentativo di capire cosa sta succedendo nel mondo dell'interazione in rete fra le persone e le informazioni registrate, anche a seguito di fenomeni commerciali come Amazon [2] o di iniziative come Google Books [3], e quale ruolo possono avere le biblioteche in questo contesto.
La tesi 4 ha per titolo Le biblioteche digitali sono biblioteche, cioè condividono con le altre biblioteche la natura di servizio di mediazione per l'accesso alla conoscenza storicamente determinato dall'interrelazione con il proprio ambiente. Si tratta allora di capire qual è lo specifico di biblioteche così intese, cioè dotate di tutto il proprio armamentario culturale, scientifico e tecnico, in un contesto in cui agiscono da un lato nuovi concorrenti, nuovi players, e dall'altro anche nuovi pubblici, nuove comunità di utenti, che magari le biblioteche non erano mai riuscite ad intercettare.
In un contesto così fluido e mutevole non si poteva certo pensare di scrivere il manifesto delle biblioteche digitali, ma piuttosto un manifesto per le biblioteche digitali. Se è vero, come si afferma nel titolo della prima tesi, che anche le biblioteche digitali sono conversazioni, cioè interazioni fra un utente e una comunità di distribuzione di risorse informative, organizzate nei casi migliori come servizi, le conversazioni sono per loro natura refrattarie a modelli statici, predefiniti (il modello della biblioteca digitale), le conversazioni vanno per conto loro, seguono percorsi imprevedibili, e non è quindi il caso di mettere troppi punti fermi, di dare definizioni, in una parola chiudere la conversazione. I modelli di biblioteche digitali devono essere flessibili, si dice nella tesi 16.
Se leggete il Manifesto, vedrete che vi si parla di biblioteche digitali sempre al plurale. Sull'alternativa fra plurale e singolare la discussione nel Gruppo di studio è ancora aperta, e le considerazioni che seguono sono in gran parte mie personali. Claudio Lembroni, in un bell'intervento tenuto al congresso AIB del 2003, e successivamente in un articolo pubblicato sul "Bollettino AIB" [4], ragionando di ontologia delle biblioteche digitali, individuava nella pluralità una delle loro parole chiave. Pensare al plurale ci consente di individuare con maggiore chiarezza i domini digitali di comunità diverse, a partire dalla classica triade Archivi-Biblioteche-Musei, ma anche istituzioni della formazione e della ricerca, pubblica amministrazione, industria culturale, aziende, industria delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, che la tesi 5 (le biblioteche digitali integrano le comunità) legge appunto in chiave di integrazione funzionale dei rispettivi servizi, cioè di convergenza, un'altra delle parole chiave individuate da Lembroni.
Plurali sono quindi le comunità di distribuzione dei servizi, e parimenti plurali sono le comunità di fruizione - i pubblici - dei medesimi servizi. Anche nel nostro ambiente c'è pluralità: continuo ad essere convinto che se si chiede ad un bibliotecario di un' istituzione della memoria cosa gli viene in mente se gli si parla di biblioteca digitale, questi penserà alla scansione digitale, magari di quei documenti che siamo abituati a definire rari o di pregio, mentre ad un bibliotecario di un istituto di ricerca o di un'università verranno in mente gli archivi aperti, e le modalità ormai correnti di formazione e circolazione del sapere scientifico.
E un utente invece a cosa penserà? Un utente magari poco avvezzo a frequentare le biblioteche, lontano cioè dal nostro target abituale, ma che usa normalmente la rete, probabilmente penserà ad un insieme di servizi, più che a un deposito di documenti, seppure elettronici (il deposito è la rete), e magari si aspetterà che questo insieme di servizi gli si presenti in forme simili ad Amazon, o addirittura ad Ebay [5], più che come un nostro opac. Parlare di biblioteche digitali, quindi, corrisponde alla realtà, e ha ad un tempo una sua precisa valenza politica: la tesi 9 dice che Le biblioteche digitali mal sopportano il centralismo, e non accettano il vecchio modello di governo e controllo centralizzato. Il manifesto non condivide le concezioni istituzionali della biblioteca digitale, quelle cioè che vogliono attribuire ad un'istituzione specifica la titolarità del suo processo di sviluppo; piuttosto considera con favore il ruolo che le istituzioni coinvolte possono esercitare nella diffusione degli standard, e spesso anche nella loro definizione e mantenimento.
C'è un passaggio della prima tesi che al principio ho fatto qualche fatica a digerire, ma che diventa comprensibile alla luce di quanto sto dicendo: le biblioteche digitali non sono un sistema, una grande narrazione sistematica, ma tante conversazioni tenute insieme da un linguaggio comune. Ora, i bibliotecari parlano di sistemi e di cooperazione da tantissimo tempo, e in particolare dalla fine degli anni settanta del Novecento. Sistemi bibliotecari, sistemi territoriali integrati e quant'altro. I sistemi implicano una volontà politica, una progettualità complessiva, spesso una regia istituzionale. Le biblioteche digitali non si stanno sviluppando in questo modo, ma piuttosto in maniera casuale, affastellata, non sono immuni da ripetizioni e sovrapposizioni, forse col tempo costituiranno dei sistemi, ad esempio di natura disciplinare (pensiamo agli sviluppi del web semantico, o a reti di archivi aperti disciplinari), quando avranno raggiunto una massa critica sufficiente, ma saranno probabilmente sistemi coordinati a posteriori, sul versante della distribuzione e disseminazione di servizi spesso eterogenei, sistemi quindi diversi da quelli che conosciamo; al momento però mi sembra prevalere una certa separatezza.
Diventa cruciale allora, per consentire agli utenti di muoversi, di conversare con le diverse biblioteche digitali, il richiamo presente nella prima tesi ad un linguaggio comune. Il linguaggio comune delle biblioteche digitali è l'interoperabilità, la terza parola chiave citata nell'intervento di Leombroni e richiamata nella tesi 9, dove viene considerata come condizione irrinunciabile di uno sviluppo per quanto possibile coordinato delle biblioteche digitali. L'interoperabilità è un concetto ampio, che, come ha scritto Anna Galluzzi, attiene alla portabilità delle informazioni nello spazio e nel tempo [6]: non si tratta solo di utilizzare dei formati standard per la rappresentazione di dati e metadati e dei protocolli standard per il loro trasferimento (interoperabilità tecnica), ma anche di definire per quanto possibile le medesime entità con gli stessi termini all'interno dei diversi domini digitali (interoperabilità semantica), e di rimuovere gli ostacoli di natura normativa o organizzativa alla libera circolazione dei dati fra i diversi domini digitali (interoperabilità giuridica, amministrativa ed organizzativa) [7].
L'interoperabilità, estensivamente intesa, sembra dunque essere lo strumento cardine, e davvero irrinunciabile, per ricondurre ad una certa unità la realtà varia e multiforme delle biblioteche digitali, ed un sicuro terreno di lavoro per i bibliotecari digitali, con lo scopo ultimo della costruzione della Biblioteca Digitale, al singolare. Personalmente, comunque, preferisco continuare a pensare al plurale. Renzo Piano, in una recente intervista a La Repubblica [8], diceva che gli architetti dovrebbero pensare meno a lasciare il proprio segno sul territorio, e di più a costruire case, strade e piazze gradevoli per chi dovrà viverle. La visione olistica della Biblioteca Digitale mi pare assomigliare molto ad un "segno" razionalizzante di noi bibliotecari piantato su un universo mutevole, e che in buona parte ci sfugge.
Perché, alla fine, al centro del nostro lavoro c'è l'utente (la tesi 24: le biblioteche digitali hanno come focus gli utenti); e se, come comunità professionale/istituzionale avremo lavorato bene, sarà il singolo utente, anch'egli "interoperante", a costruirsi la propria Biblioteca Digitale singolare (ad ogni utente la sua Biblioteca Digitale), seguendo il proprio percorso fra contenuti e servizi eterogenei (la tesi 18, i contenuti ed i servizi sono eterogenei ), che magari noi avremo provato a rendere accessibili in maniera omogenea, lavorando sulle interfacce, gli strumenti di ricerca e l'organizzazione dei contenuti medesimi (la tesi 19, l'accesso ai contenuti ed ai servizi è omogeneo).
Le altre due entità coinvolte con gli utenti in questo giro di transazioni sono i detentori dei contenuti e i distributori dei contenuti, cioè i fornitori dei servizi. In questo senso ci viene molto in aiuto il modello dell'Open Archival Initiative, il modello OAI con il protocollo OAI-PMH (Protocol for Metadata Harvesting); se ne parla nella tesi 21 (i detentori dei contenuti e i fornitori dei servizi interagiscono fra loro). E', questo, un caso interessante di un modello tecnologico, nato come sappiamo nel contesto del movimento per l'open access, che diventa un modello organizzativo e dei servizi: i detentori dei contenuti, cioè i repositories digitali, espongono i metadati relativi ai propri oggetti digitali all'harvesting esercitato dai fornitori dei servizi, che in questo modo riescono a recuperare gli oggetti ed a distribuirli all'utente che li ha richiesti.
Al di là del modello tecnologico, che potrà evolvere nel tempo, al manifesto interessa lo scenario: la tesi 23 dice che l'accesso e la fruizione dei contenuti sono gestiti in autonomia. Il dato che abbiamo voluto sottolineare è che ciascun repository può essere oggetto dell'harvesting di n fornitori di servizi, ciascuno dei quali potrà adottare - con l'accordo del detentore dei contenuti ma in piena autonomia - politiche di servizio o politiche commerciali diverse, mirate su target specifici o personalizzate. E vedete che stiamo parlando di nuovo di pluralità e interoperabilità. Vorrei anche ricordare, a proposito di contenuti, che le biblioteche digitali si inseriscono in un contesto in cui, oltre alla promozione culturale o alla valorizzazione dei beni culturali, si svolgono molteplici altre attività, che possono avere componenti ludiche, o di utilità immediata, o di servizio, come ben sanno le biblioteche pubbliche di base. Stiamo attenti a non porre troppi confini, e lasciamo circolare liberamente le conversazioni dei nostri utenti da un dominio all'altro, e fra domini di "classe" o livello diversi.
Non vorrei comunque dare l'impressione che la funzione bibliotecaria sfumi, si confonda o si perda nei meandri del web. Il manifesto non intende sostenere questo, anzi. Intendiamo piuttosto individuare degli elementi, delle funzioni che costituiscano lo "specifico" delle biblioteche nel web. Della centralità dell'utente e dei servizi si è già detto, un altro elemento è la conservazione digitale, che non è solo conservazione e accessibilità permanente di quanto viene prodotto con i progetti di scansione digitale, ma anche di quanto nasce digitale, come i contenuti prodotti ed inseriti negli archivi aperti, nonché la conservazione dello spazio stesso del web.
La tesi 26 dice che le biblioteche digitali si fanno carico, tramite la cooperazione, della conservazione permanente dell'eredità culturale digitale. Sappiamo che la conservazione digitale non è solo questione di tecnologie, ma deriva innanzitutto da una coscienza sociale diffusa del valore dell'informazione digitale come testimonianza di civiltà, come afferma la Carta dell'UNESCO del 2003 [9], una coscienza sociale tale da convincere alcuni fra gli attori della catena di valore dell'informazione digitale a rinunciare ad alcune titolarità, ad alcune prerogative, ad esempio con una gestione "liberale" dei Digital Rights (il che non è affatto scontato), e presuppone un modello organizzativo quanto mai complesso, basato su specifiche assunzioni di responsabilità da parte di alcune istituzioni in merito al mantenimento di archivi digitali affidabili (trusted), sulla base di un mandato definito in sede politica e normativa, a partire naturalmente dalla legge sul deposito legale.
Le biblioteche e gli archivi sono i naturali depositari di queste funzioni, che ovviamente comprendono i temi dell'integrità e dell'autenticità dei contenuti. Anche qui il manifesto richiama esplicitamente un modello logico di archivio digitale affidabile, l'Open Archival Information System, uno standard ISO del 2003 [10], che non a caso è anche un modello organizzativo dei contenuti ed insiste molto sulla loro disseminazione.
La tesi 27 individua nel Portale nazionale delle biblioteche digitali [...] lo strumento di accesso ai servizi dei molteplici service provider. Siamo nella terza sezione del manifesto, quella denominata "Funzioni", che si propone di mettere in evidenza alcuni elementi di carattere più operativo, rispetto a quelli delle altre due sezioni. Si potrebbe considerarla come un riferimento alla situazione italiana, ma la sua valenza è a mio avviso più generale e - sempre all'interno di un ragionamento sullo specifico bibliotecario - allude all'esistenza, anzi alla necessità dell'esistenza di un punto di accesso alle informazioni ed ai saperi presenti sulla rete che sia riconoscibile come biblioteca, che mantenga cioè (e qui richiamo il titolo di una relazione di Luigi Crocetti pubblicata nel 1988 [11]) lo stile della biblioteca.
Il portale consente l'accesso a domini digitali diversi, non solo bibliotecari, implica l'esistenza di un aggregatore del digitale, non solo bibliotecario, cioè di un indice delle risorse digitali, costruito probabilmente in base ad un modello diverso da quello dell'indice SBN, ed è in grado di interfacciarsi con n sistemi, commerciali e non, di distribuzione dei servizi, supportando politiche commerciali e di servizio diverse. Il portale non è comunque l'unico punto di accesso alle risorse digitali, perché si affianca a portali di altro livello, internazionali o tematici. L'utente è sempre al centro di questo universo, di questa "città circolare con diversi varchi" in cui, come ha scritto Angela Di Iorio, si realizza la "mobilità cognitiva di utenti e oggetti digitali", in quanto il suo specifico punto di vista, che si concretizza in uno specifico punto di accesso, determina in qualche misura il percorso che seguirà. L'utente è in definitiva supportato da strutture organizzative e da tecnologie che gli consentono di aggregare e riaggregare i contenuti digitali a seconda delle sue esigenze, un po' come si fa sul sito della Fiat Punto, in cui ognuno può mettere insieme motorizzazioni, allestimenti, colori, accessori, e poi magari definire con un concessionario il piano di finanziamento e ordinare la vettura.
In tutto ciò qual è, appunto, lo stile della biblioteca? In base alla discussione tuttora in corso nel nostro Gruppo di studio, individuerei come caratteristica prima della funzione bibliotecaria nel web la qualità dell'intermediazione fra utenti e contenuti digitali, qualità che richiama innanzitutto concetti di cui abbiamo già parlato, come la garanzia dell'autenticità, dell'integrità e della disponibilità permanente dei contenuti. E già questo primo aspetto rimanda a questioni complesse, dalla normativa sul deposito ai criteri di selezione o scarto dei contenuti, alla sostenibilità finanziaria degli archivi digitali (la sostenibilità è un'altra parola chiave delle biblioteche digitali), dalla qualità degli schemi di metadati a quella dei sistemi di ricerca e recupero di metadati e oggetti digitali, dai protocolli di interoperabilità agli identificatori persistenti degli oggetti stessi. Un'altra caratteristica fondamentale delle funzione bibliotecaria nel web dovrebbe essere la sua natura di servizio pubblico, definita in base ad un preciso mandato o commitment, fondato giuridicamente e in grado di originare i finanziamenti necessari.
Come comunità professionale siamo portatori di una visione complessiva che vede nella realizzazione dell'accesso libero e universale a conoscenze, saperi, abilità un obiettivo fondante della funzione bibliotecaria. La mancanza, o l'insufficiente realizzazione di queste caratteristiche ci inducono, come gruppo, a non considerare biblioteche digitali esperienze come Google Books o Internet Archive [12]. Ma la domanda che dobbiamo porci è: fino a quando? La qualità dell'intermediazione può essere considerata in termini relativi, con riferimento a target specifici, e il mandato qualcuno potrebbe conquistarselo sul campo. L'ultima delle 30 tesi del manifesto dice che le biblioteche digitali favoriscono l'integrazione funzionale con i motori di ricerca. Questo significa che con quelle esperienze le biblioteche, anche nel nostro paese, dovranno concretamente rapportarsi.
C'è un limite notevole nell'architettura complessiva del manifesto: esso infatti presuppone che la rete resti quello che, bene o male, oggi è, cioè uno spazio di libertà, ospitale anche nei confronti di attività diverse dal puro business. E questo non è assolutamente scontato. Al recente summit mondiale sulla società dell'informazione, svoltosi a Tunisi [13] lo scorso novembre, si è discusso molto sulle modalità di governo della rete, a partire dalla questione decisiva dei modi di assegnazione e gestione dei domini. Ci sono fondate preoccupazioni che un aumento dei poteri di controllo che i singoli stati potrebbero esercitare sulla rete finisca col pregiudicarne la libera accessibilità, come già avviene in alcuni stati. Su un altro fronte, quello dell'organizzazione mondiale del commercio, il WTO, è forte una posizione - come ha ricordato Lalla Sotgiu al recente congresso dell'AIB - che considera i servizi erogati o erogabili dalle biblioteche digitali forme di concorrenza sleale nei confronti dei fornitori commerciali di servizi simili. Viene proprio voglia di dire che c'è bisogno di più biblioteca nella rete, a presidio e tutela di quella libertà universale di accesso alle conoscenze che costituisce, come accennavo sopra, il fondamento profondo della funzione bibliotecaria.
Maurizio Messina, Associazione Italiana Biblioteche, Gruppo di studio sulle biblioteche digitali, e-mail: messina@marciana.venezia.sbn.it
* Questo articolo riprende il testo della relazione tenuta in occasione del Seminario "Digitali si diventa. Presupposti teorici e conseguenze culturali della digitalizzazione in biblioteca", Modena, 12 dicembre 2005.
[1] <http://www.cluetrain.com/#manifesto>; tutti i link sono stati controllati il 23.03.2006; <http://www.mestierediscrivere.com/testi/Tesi.htm>.
[2] <http://www.amazon.com>.
[3] <http://books.google.com/>.
[4] Claudio Leombroni. Appunti per un'ontologia delle biblioteche digitali: considerazioni sulla Biblioteca digitale italiana. "Bollettino AIB", 44(2004) n. 2, p. 130-131
[5] <http://www.ebay.com/>.
[6] Anna Galluzzi. Biblioteche e cooperazione: modelli, strumenti, esperienze in Italia. Milano: Editrice bibliografica, 2004, p. 398.
[7] su questo tema si veda: Riccardo Ridi. La biblioteca digitale: definizioni, ingredienti e problematiche. "Bollettino AIB", 44 (2004) ), n. 3, p. 273-344. Versione elettronica: <http://eprints.rclis.org/archive/00002535/01/bibdig.pdf>, in particolare pag. 27.
[8] La repubblica, 22.11.2005, pag. 15.
[9] <www.ifap.ru/ofdocs/digite.doc>, oppure <http://infolac.ucol.mx/observatorio/memoria/carta%20ingles.pdf>.
[10] disponibile a: <http://www.iso.org/iso/en/CatalogueDetailPage.CatalogueDetail?CSNUMBER=24683&ICS1=49&ICS2=140&ICS3=&scopelist>.
[11] Luigi Crocetti. Lo stile della biblioteca. In: Luigi Crocetti. Il nuovo in biblioteca. Roma : Associazione Italiana Biblioteche, 1994, p. 35-40.
[12] <http://www.archive.org/>.
[13] <http://www.itu.int/wsis/>.