Lombardia
Dalle biblioteche popolari alla biblioteca pubblica: il caso italiano
Il 23 febbraio
si è svolto il seminario di studi Dalle biblioteche
popolari alla biblioteca pubblica: il caso italiano,
organizzato dalla sezione Lombardia dellAIB in collaborazione
con la Società Umanitaria. LAIB Lombardia ha inteso così
offrire una occasione di approfondimento e di riflessione teorica sul
retroterra della professione di bibliotecario e sulla biblioteca
pubblica, così come è venuto configurandosi nella
concreta realtà storica dellItalia del secolo scorso e
dei primi decenni di questo. È il proseguimento ideale di una
riflessione iniziata con il convegno di studi su Ettore Fabietti e le
biblioteche popolari, tenutosi sempre nella sede dellUmanitaria
nel 1994.
Claudio Temeroli, della
Biblioteca di Forlì, ha iniziato i lavori del Seminario,
proponendo un sintetico excursus della storia delle
biblioteche italiane e soffermandosi in maniera particolare sulla
esperienza delle biblioteche popolari a cominciare da quella
pionieristica di Antonio Bruni a Prato per arrivare a quella della
Società Umanitaria e dalla figura di Ettore Fabietti che hanno
dato un contributo decisivo alla promozione delle biblioteche
popolari in Italia. Riflettendo sul ruolo e sulla funzione del
bibliotecario e delle biblioteche pubbliche nella società
contemporanea, Temeroli ha concluso il suo intervento citando Ortega
Y Gasset: di fronte alla quantità enorme di informazione
prodotta sia sui supporti informativi tradizionali che su quelli
digitali che viaggiano in rete, la missione del bibliotecario si
configura sempre più come quella di un mediatore, di
selezionatore della informazione veramente valida e significativa. Da
qui limportanza vitale della funzione delle biblioteche
pubbliche in un mondo in continua e frenetica trasformazione.
Romano Vecchiet, Direttore della
Biblioteca civica di Udine, ha inteso nel suo intervento approfondire
il dibattito biblioteconomico in merito alle biblioteche popolari nel
periodo dellultimo trentennio del secolo scorso; un periodo
che, ponendosi a cavallo tra lesperienza di Antonio Bruni a
Prato e quella milanese di Ettore Fabietti, non era stato
adeguatamente studiato. Vecchiet trae alimento alle sue riflessioni
da tre opere che affrontano i problemi delle biblioteche per il
popolo: Le biblioteche circolanti, di Luigi Morandi, deputato
di orientamento democratico, pubblicato a Firenze nel 1868; Delle
biblioteche circolanti nei comuni rurali, di Vincenzo Garelli,
pedagogista di orientamento rosminiano, edito a Torino nel 1870;
Autodidattica e biblioteche popolari di Giuseppe Neri, un
maestro elementare poi ispettore scolastico, pubblicato nel 1888 a
San Casciano. Nei tre autori, ma soprattutto in Giuseppe Neri, sono
preponderanti lenfasi e lentusiasmo pedagogico, mentre
sono ignorati i problemi organizzativi, anzi è sufficiente
«lentusiasmo del bene» senza dover scendere nei
dettagli pratici. Non cè alcun bisogno, scrive poi
Morandi, di sovvenzioni statali, perché per le biblioteche
basta il contributo volontaristico dei singoli. Per Neri la
biblioteca popolare deve rimanere comunque uno strumento sussidiario
della scuola, organizzata da un maestro elementare e non da un
bibliotecario. Garelli è dellopinione che le collezioni
debbano contenere solo libri educativi ed edificanti: le classi
subalterne devono essere paternalisticamente convertite ai sani
valori borghesi e patriottici. Analogamente, per Luigi Morandi le
biblioteche circolanti hanno la funzione di fare degli operai e degli
altri appartenenti ai ceti inferiori dei patrioti consapevoli e
convinti, dei veri italiani. Appare chiaro come per gli autori
citati, nessuno dei quali è bibliotecario per formazione o
professione, la biblioteca popolare si configuri essenzialmente come
espressione di una cultura borghese vagamente positivista e
filantropica, permeata di ideali risorgimentali e atteggiata a un
deciso, e politicamente preoccupato, paternalismo nei confronti dei
ceti popolari.
Giorgio Ghezzi ha affrontato il
periodo delle biblioteche popolari successivo allavvento del
fascismo: il regime si preoccupa di controllare e poi di
fascistizzare tutte le istituzioni culturali politicamente pericolose
o anche neutre, in base a un progetto, non sempre perseguito
coerentemente, già appropriatamente definito fabbrica
del consenso; in questottica, anche le biblioteche
popolari, che si erano organizzate per iniziativa di Fabietti nel
1909 come Federazione italiana delle biblioteche popolari, vengono a
confluire nel 1932 nellEnte nazionale per le biblioteche
popolari e scolastiche, rigidamente controllato dal partito e dal
Governo. Lintervento del relatore si focalizza sullElenco
di autori non graditi in Italia di cui si proibiva la stampa, la
lettura e la eventuale traduzione in italiano, pubblicato nel 1941
dalla Commissione appositamente istituita nel 1938. In 86 pagine
vengono elencati 1100 autori e 1600 opere nocive politicamente o
moralmente. Lo studio di Ghezzi permette di delineare alcune
tipologie di libri e autori proibiti: libri sul duce (ad esempio la
biografia di Mussolini scritta da Prezzolini), libri sulle esperienze
belliche etiopiche e spagnole (ad esempio Oggi in Spagna, domani
in Italia di Carlo Rosselli); opere di autori ebrei o che
trattino di argomenti ebraici; libri di contenuto antifascista; libri
considerati pornografici in base al senso del pudore espresso
allepoca (tra cui le opere di romanzieri come Pittigrilli, ma
anche classici come Boccaccio, Casanova, Balzac, Mirabeau, e parecchi
testi scientifici di sessuologia). È significativo che sulle
17 opere che superarono le duecentomila copie vendute in Italia
durante la dittatura fascista, ben 13 comparissero nell elenco.
A Giorgio Montecchi, docente di
biblioteconomia allUniversità di Milano, è
toccato il compito di trarre conclusioni di carattere generale dalle
relazioni precedenti. Dalla quinta legge di Ranganathan, la
biblioteca è un organismo in crescita, Montecchi trae
spunto per affermare come sia riduttivo e semplicistico affermare che
la nascita delle biblioteche pubbliche possa ascriversi al Public
libraries Act del 1850, in cui il Parlamento inglese espresse la
necessità di biblioteche aperte alla generalità dei
cittadini, senza alcuna spesa per i servizi essenziali, finanziate
dallo Stato o dalle comunità locali. In realtà, la
genesi delle biblioteche pubbliche affonda nel lungo periodo, è
necessario ribadirlo ripercorrendo anche brevemente la storia delle
biblioteche in Italia, a cominciare perlomeno dalle grandi
biblioteche umanistiche, quali la Malatestiana di Cesena, messe a
disposizione del pubblico, anche se costituito da un ristretto numero
di eruditi, e non di una istituzione ecclesiastica. Con la
Rivoluzione francese si afferma il principio che la lettura e
laccesso alla cultura e allinformazione non sono più
un atto di munificenza e liberalità da parte di singoli o
dello Stato, ma un preciso diritto del cittadino, non più
semplice suddito.
Lesperienza delle
biblioteche popolari in Italia, che si inscrive in questa lunga
tradizione, non si può quindi riduttivamente configurare come
un semplice episodio ormai appartenente al passato; la preoccupazione
pedagogica che sembra alla base della loro istituzione nella seconda
metà del secolo scorso trova la sua giustificazione nel fatto
che quasi i due terzi degli italiani fossero analfabeti. In realtà
quella delle biblioteche popolari è stata una esperienza
concreta, formativa di generazioni di bibliotecari, ancora nel
secondo dopoguerra (tra cui Giovanni Bellini, Direttore della
Sormani), prima della loro definitiva scomparsa, nel 1978, appena
ventanni fa; esperienza vissuta e sofferta che, secondo
Montecchi, allaffermarsi del concetto di biblioteca pubblica in
Italia ha dato di più rispetto al modello astratto e distante
della public library inglese e più ancora statunitense
che si è venuto affermando a partire dagli anni Cinquanta.
Loredana Vaccani
StefanoGrigolato
(il resoconto è disponibile anche su AIB-WEB allindirizzo: https://www.aib.it/aib/sezioni/lom/re980223.htm)